L’Europa è tornata, si è detto. Dall’indifferenza alla sollecitudine verso i profughi il cammino è lungo, ma è iniziato. Va dato atto ad Angela Merkel, e alla Germania di aver dato una spinta decisiva per tornare a essere l’Europa dei diritti e dell’accoglienza. Ma come è iniziato? L’immagine della morte del bambino Aylan, di tre anni, ha provocato una forte emozione, che per un momento ha interrotto anche il flusso di stoltezze aggressive e razziste del “popolo del web” e di Salvini. Non era bastata, ad esempio, qualche mese fa, la notizia di un neonato morto di freddo in un campo rom di Milano per evitare i “mi piace” di ben 49 persone su Internet.
Basta la morte di un bambino siriano, innocente in mezzo a centinaia di migliaia di altri innocenti, a scuotere la coscienza dell’Europa? Una foto può cambiarci? Forse la foto di un bambino non basta, ma sicuramente non sono stati sufficienti, finora, le cifre (25.000 morti nel Mediterraneo, quanti sulle rotte balcaniche? E sui Tir in Austria o in Francia, o a Ceuta e Melilla, al confine con la Spagna? Le foto, i video, i reportage, gli articoli, le testimonianze…). Sapevamo che chi arriva, rischiando la vita, da conflitti, violenza, miseria fa parte di quelli che in Europa vengono definiti flussi misti. In mezzo ci sono famiglie siriane che dopo quattro anni di guerra non hanno più scampo, giovani dell’Eritrea, Mali, Gambia alla ricerca di diritti umani e in mezzo tanti che sperano e magari non riusciranno ad ottenere l’asilo tanto sospirato perché verranno respinti nella categoria dei “migranti economici”.
L’incontro con una morte così ingiusta per ora non ispira, per fortuna, un dibattito vuoto e di circostanza, e speriamo ci venga risparmiata la triste retorica di rilanciare la responsabilità di quanto accade su chi aiuta o cerca di ristabilire un minimo principio di cooperazione tra gli stati e di umana solidarietà. Prevale un silenzio rispettoso, un’esitazione, come quello dei monatti davanti alla bambina Cecilia morta di peste nei Promessi sposi di Manzoni. Primo Levi coglie la nostra incapacità di “pietà per molti”, terribile dono concesso solo ai santi, quando racconta della squadra addetta alle camere a gas, ad Auschwitz, abituata a dare la morte a migliaia di persone ogni giorno, che si trova ad un tratto a voler salvare una sola ragazza miracolosamente scampata al gas. Ai monatti, alla Squadra speciale e a tutti noi, spiegava, “non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo”.
D’altronde, “Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una caratteristica ed essenziale esperienza moderna” scriveva Susan Sontag. Scorrono sotto i nostri occhi, in ogni momento della vita quotidiana, troppe immagini di dolore. Ma non siamo saturi della sofferenza altrui; piuttosto, l’immediato e insopprimibile slancio di pietà viene spesso represso e quasi sempre non trova sbocco in un comportamento di aiuto. Questo rifiuto di vedere l’altro e la sua sofferenza non significa, infatti, che tutti gli spettatori apatici che assitono a tanta morte all’ora di cena o i testimoni passivi siano immorali o incapaci di sentimenti o di identificazione; non esiste contesto o personalità che porti ineluttabilmente alla disumanizzazione dell’altro. Si crea, però, una sorta di vuoto morale che impedisce il riconoscimento e reprime lo slancio che pure proviamo.
Ha ragione chi teme lo spettacolo del dolore, e l’assuefazione a immagini sempre più dure; e anche chi teme le descrizioni “oscene”, quelle in cui si tocca il male da vicino, rendendolo involontariamente attraente, costringendo lo spettatore o il lettore a una morbosa attenzione.
Sarebbe poco, quindi, questa pietà saltuaria, se volessimo girare pagina subito. Ma quel ricordo insistente ritorna e apre una breccia. Aylan non doveva morire così, e qualcosa si può fare. Non siamo condannati a restare voyeurs senza vergogna. Si può tornare a credere in una Europa magari invecchiata ma che ritrova il senso della sua unità proprio in una politica giusta, aperta, lungimirante, coesa. La Germania ha saputo cominciare a fare questo salto, e può trascinare gli altri Stati. L’Italia ha inventato Mare Nostrum e con la sua Marina e la sua Guardia Costiera ha salvato 150.000 vite. Aprire canali umanitari nei paesi di transito è possibile, così come trovare una normativa comune in materia di asilo. Il Regolamento degli accordi di Dublino, ancora in collaudo, può essere cambiato perché la storia l’ha superato. Certo, 52 milioni di rifugiati nel 2015 mentre erano 20 milioni nel 2005, le cifre più ingenti dal 1951, anno in cui la Convenzione di Ginevra ha stabilito il sacro diritto all’asilo per chi è in pericolo e ha fatto dei paesi democratici un santuario per i fuggitivi: ma sono cifre realisticamente affrontabili dai 28 paesi dell’Unione, se l’Est non ricadrà nei fantasmi del passato, nei numeri marchiati sul braccio per evitare di vedere le storie, i nomi, i volti, se il Nord non sarà stanco di solidarietà, se l’Occidente non sarà troppo distratto e sazio. La ripresa dei muri inquieta, ma le persone li varcano, spingono, premono con la forza della speranza più che della disperazione e la comunicano, in qualche modo, anche all’Europa, se non vincerà la paura. La forza della storia può spingere l’Europa a prendere quelle iniziative in politica estera che affrontino i conflitti senza far prevalere solo l’interesse nazionalistico.
Che non siamo condannati a ripetere il passato lo dimostra l’accoglienza dei profughi al Memoriale della Shoah di Milano. Nei sotterranei della Stazione Centrale, da dove partivano dal 1944 i treni per i campi, è nato un luogo della memoria. Liliana Segre, partita a tredici anni dopo essere stata respinta alla frontiera con la Svizzera, ha voluto scrivere a grandi caratteri all’entrata la parola “indifferenza”. Qui la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica, con l’aiuto di tanti volontari di tutte le fedi e di ogni provenienza, da qualche mese accoglie ogni sera una cinquantina di persone che cercano rifugio altrove dopo essere sbarcati al Sud. Nelle brandine di fortuna allestite per ospitare gente stanca passa un’umanità dolente: l’anziana donna ottantenne di Aleppo, città siriana assediata da anni senza acqua e cibo, il bambino eritreo di 13 anni, come Liliana, che vuole raggiungere la famiglia in Germania, passano sguardi pieni di tristezza e di speranza, basta guardarli in volto. “Refugees welcome” comincia a dire l’Europa, se sapremo cogliere l’occasione.
Milena Santerini, Deputata, Presidente Alleanza Contro l’Intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa