Ero a Venezia per lavoro alcuni giorni fa quando, passeggiando per le strade del centro sono rimasto colpito dalla locandina di un quotidiano locale: “Cari ladri, ridatemi le foto dei miei figli morti”. Ho acquistato il giornale e ho letto la triste vicenda di Gino Cederle, un 71enne di San Donà.
Gli rubano il portafogli. Dentro pochi soldi, i documenti, la patente. E le foto dei suoi due figli. Le porta sempre con sé perché non ne ha altre per ricordarli. I figli di Gino, Alberto e Alessandro sono morti sul lavoro a 24 e 32 anni. Una scomparsa che ha segnato la sua vita come quella di tutti i familiari che hanno perso i loro cari schiacciati da un trattore (102 dall’inizio dell’anno), intrappolati tra le lamiere di un camion o avvelenati dalle sostanze tossiche di una fabbrica…
A Gino non interessa avere indietro né i soldi né i documenti ma solo le foto dei suoi figli e per questo lascia ai giornali il suo numero di cellulare.
Quando lo chiamo, senza alcun intento tranne quello di testimoniargli, per ciò che vale, la solidarietà di uno sconosciuto, mi racconta della vicenda. Ma nel chiedergli dei figli, di come tragicamente se ne sono andati Gino si incupisce. Sono trascorsi molti anni ma il ricordo di quelle due giornate strazianti lui non vuole riviverlo. “Preferisco non parlarne”. E quando gli dico che faccio parte di un’associazione, Articolo21 che, nel suo piccolo ha sempre cercato di accendere i riflettori sulle morti sul lavoro mi consegna un messaggio lapidario e rassegnato: “è una piaga che non si fermerà mai, i morti non diminuiscono e sempre meno se ne parlerà”.
Al 15 settembre di quest’anno sono 478 i morti sui luoghi di lavoro, il 4,6% in più rispetto allo scorso anno. Ma sono oltre 1000 se si sommano quelli deceduti in altri contesti. Come i morti “in itinere”: lavori a ritmi estenuanti poi ti metti in macchina per tornare a casa e la stanchezza diventa fatale. Per poi, spesso, non essere neanche conteggiati nelle fredde statistiche. Agli inerti computi mancano all’appello anche le vittime dei killer invisibili, quelle polveri letali che, solo a Casale Monferrato hanno ucciso 1800 persone e il cui picco si raggiungerà nel 2020. E i tanti lavoratori irregolari, sfruttati da un nuovo caporalato non meno spietato di quello di un secolo fa, che non denunciano gli infortuni per non rischiare di perdere un lavoro, pur precario, mal pagato e in condizioni di semischiavitú. Ne parlavamo spesso con l’amico e collega Santo Della Volpe, scomparso pochi mesi fa, e che alla sicurezza sul lavoro ha dedicato tanti anni della sua vita professionale.
E ce lo ricordano instancabilmente Carlo Soricelli e Marco Bazzoni due semplici operai metalmeccanici, uno in pensione e l’altro tuttora in attività che monitorano costantemente gli infortuni sul lavoro da nord a sud del Paese. Ogni giorno, Marco e Carlo, solo per amore di verità e giustizia tempestano con notizie e denunce le caselle mail di istituzioni, governi, partiti politici e associazioni. E quelle delle tv e dei giornali che a questo bollettino di guerra quotidiano dedicano notizie in coda ai tg o rari trafiletti e solo quando i morti superano almeno le cinque unità. Perché tre o quattro morti sul lavoro al giorno, ogni giorno dell’anno, non fanno notizia. Quando ne parlano, poi, continuano a chiamarle “morti bianche”… Ma non c’è niente di bianco e di candido in queste perdite umane. Sono morti sporche, sporchissime, insanguinate e non una tragica fatalità.
Parlarne e chiamarle nel modo giusto è un dovere di chi fa informazione.
Lo dobbiamo ai tanti Gino che non possono rivedere i loro figli, morti sull’altare del profitto a tutti i costi e vittime dell’assordante silenzio dell’indifferenza.