Dimenticatevi Aylan. la sua immagine straziante sulla battigia della spiaggia di Bodrum, la commozione che si diffuse nei giorni successivi a livello internazionale, i buoni propositi della Merkel e le promesse di accoglienza del premier inglese Cameron; dimenticatevi tutto perché, purtroppo, aveva ragione chi ci accusava di ingenuità, di eccessivo ottimismo, di scarsa conoscenza delle posizioni europee profonde in fatto di immigrazione e integrazione. Aveva ragione chi ci diceva che il gruppo di Visegrad, ossia quell’accolita di premier razzisti che sta vanificando i progressi compiuti dai loro paesi in seguito all’ingresso nell’Unione Europea, alla fine sarebbe riuscito a vanificare gli afflati umanitari in cui pure avevano sperato nelle scorse settimane, illudendoci, ancora una volta, che almeno i paesi fondatori avessero la forza di comprendere i rischi che corre il progetto europeo se continuiamo a lasciarlo in mano a liberisti sfrenati in ambito economico e industriale, a guerrafondai in campo internazionale e a xenofobi con idee retrive e inapplicabili per quanto concerne l’accoglienza e la gestione dei flussi migratori.
Al contrario, siamo costretti a fare i conti con la sospensione di Schengen da parte di paesi cardine come la Germania, l’Olanda e l’Austria, oltre alla Slovacchia e alle minacce francesi nei confronti dell’Italia, con un governo italiano che non riesce a far sentire la propria voce né a far comprendere ai partner internazionali quanto sia assurdo continuare a considerare un fenomeno di queste dimensioni come un problema esclusivamente mediterraneo e con un presidente della Commissione, Juncker, il quale, pur avendo fornito alcuni buoni spunti di riflessione in materia, dimostra anche in questa circostanza tutta la sua inadeguatezza a ricoprire un ruolo per il quale servirebbero ben altro carisma e preparazione.
Certi, dunque, che le nostre parole e i nostri appelli cadranno nel vuoto, ci permettiamo di indicare una strada alternativa per tentare di rinvigorire un progetto che – come ha più volte spiegato con toni allarmati Prodi – rischia seriamente di deperire.
Per tornare ad avere un senso e ritrovare una ragione di esistere, ma soprattutto per tornare a scaldare i cuori e le passioni di milioni di cittadini che se ne sono allontanati disgustati, considerandola ormai più una causa dei loro problemi che una soluzione ai medesimi, l’Europa dovrebbe programmare alla svelta tre conferenze operative: non i soliti convegni polverosi che si concludono con grandi applausi ed enormi nulla di fatto; no, tre conferenze al termine delle quali si assumono decisioni vincolanti che devono poi essere discusse in sede di Consiglio europeo e approvate dalla Commissione e dal Parlamento dell’Unione, divenendo subito operative.
I tre temi da porre sul tavolo, specie di fronte agli evidenti rischi derivanti dalle derive populiste presenti ormai ovunque, col loro carico di miasmi e chiusure intollerabili, riguardano, in primo luogo, l’emergenza immigrazione e poi, ovviamente, il debito pubblico dei singoli paesi e la necessità di un rilancio dello sviluppo industriale dopo gli anni della Grande crisi.
La conferenza sull’immigrazione
“Da problema a opportunità”: questo potrebbe essere il titolo della conferenza sull’immigrazione che dovrebbe svolgersi, simbolicamente, in una delle località nelle quali più di frequente avvengono tragedie immani: a Lampedus, a Kos, a Bodrum, affinché anche i burocrati di Bruxelles vedano e sappiano come stanno realmente le cose e la smettano di parlare dall’alto della loro enciclopedica incompetenza nei confronti di un fenomeno che ha assunto proporzioni mondiali ed è stato finora trattato con una miopia offensiva, come se stessimo parlando di un’emergenza da cortile, di una questione secondaria risolvibile con una scrollata di spalle o con un latrato razzista nel corso del comizio di uno dei tanti nostalgici delle ideologie assassine del Novecento che, purtroppo, stanno prendendo nuovamente piede in tutto il Vecchio Continente. Si tratta, come sa chiunque abbia studiato sia pur parzialmente i flussi migratori, di un argomento col quale saremo chiamati a fare i conti per i prossimi vent’anni, con stime che parlano di un possibile esodo di cinquanta milioni di persone dall’Africa e dal Medio Oriente, al punto da stravolgere completamente la composizione demografica di un’Europa che invecchia ed è sempre più in affanno, non riuscendo più a far fronte a un sistema di welfare che rischia di diventare insostenibile.
La soluzione, pertanto, a nostro giudizio, sarebbe quella di aprire immediatamente dei corridoi umanitari, al fine di strappare chi fugge dalla miseria e dalla guerra dalle grinfie dei trafficanti di uomini, degli scafisti e dei farabutti che, dopo aver estorto loro cifre esorbitanti, talvolta li gettano in mare o li rinchiudono nelle stive a contatto con le esalazioni tossiche del motore; di costruire dei campi profughi al confine fra Libia ed Egitto, cercando di collaborare con i governi dei due paesi (ben coscienti del caos che regna in Libia fra le fazioni di Tripoli e Tobruk), ponendo il tutto sotto l’egida dell’ONU ed impedendo che si trasformino nei campi di concentramento di gheddafiana memoria, dove i disperati venivano sottoposti a vere e proprie torture e trattati con disumana ferocia in nome di un accordo, quello stipulato da Berlusconi e Gheddafi per arginare le ondate migratorie, per il quale non finiremo mai di vergognarci; di edificare dei centri d’accoglienza e d’identificazione che siano davvero tali, gestiti e finanziati direttamente dall’Unione Europea, mettendo al bando i lager, gli amministratori locali che lucrano sulla disperazione degli ultimi della Terra e i profittatori di ogni ordine e grado e di sanzionare, fino ad espellere dall’Unione Europea, paesi come l’Ungheria, il cui governo sta usando metodi di contenimento dell’immigrazione che avrebbero fatto invidia ai nazisti. Orbán e i suoi sodali non possono e non devono diventare degli interlocutori politici: le loro idee, infatti, sono in contrasto con le ragioni stesse del progetto dei Padri fondatori e considerarli alla stregua di normali leader sarebbe esiziale per il nostro sogno di costruire finalmente un’Unione politica, aperta, libera e integrata.
La conferenza sul debito
L’ha proposta l’economista francese Thomas Piketty ed è un’idea sacrosanta, visto che negli anni della Grande crisi la media dei debiti pubblici dei singoli paesi europei è cresciuta dal 65 al 95 per cento, superando in Italia la vetta del 130 per cento e arrivando in Grecia addirittura a quella del 180 per cento. In breve, i debiti pubblici dei singoli paesi non sono sostenibili, come dimostra il fallimento delle politiche di austerità imposte dalla Troika ai paesi del Mediterraneo, a cominciare proprio dalla Grecia, e come si evince chiaramente dal nuovo memorandum che Tsipras è stato costretto a ingoiare lo scorso mese di luglio, senza che il suo paese ne abbia tratto alcun beneficio.
L’unica soluzione possibile, e auspicabile, consiste dunque in un “haircut” di almeno il 30 per cento dei debiti dei paesi più in difficoltà e nella mutualizzazione della parte rimanente attraverso gli eurobond. Sappiamo benissimo che l’ortodossia rigorista e ordoliberale che domina a Berlino non ne vuole sapere ma sappiamo anche che o seguiamo questa strada o potremo imporre tutti i sacrifici, le sofferenze e le riforme strutturali che vogliamo a popoli già ridotti allo stremo ma non riusciremo a rilanciare le economie di quei paesi, finché il salasso non farà accasciare definitivamente a terra dei cavalli che a stento, ormai, riescono ancora a reggersi in piedi.
La conferenza sullo sviluppo industriale
Per quanto riguarda lo sviluppo industriale, piaccia o non piaccia ai liberisti che sproloquiano ad ogni latitudine, l’unica soluzione non suicida è quella di mandare in soffitta Friedman, Reagan, la Thatcher e il loro grumo di ricette prive di senso e di tornare a una sana politica keynesiana, la stessa che consentì all’Europa di vivere in pace e prosperità fra il ’45 e il ’75, non a caso ricordati come i “trente glorieuses” (il trentennio glorioso). E per politica keynesiana si intendono due pilastri di un modello di sviluppo alternativo: i project bond, per investire seriamente in innovazione e ammodernamento dei macchinari, lanciare nuove imprese, favorire la diffusione di start-up e creare nuovi posti di lavoro, e la costituzione di un IRI europeo (perché, oggi come oggi, un IRI italiano non sarebbe sufficiente né avremmo, probabilmente, le risorse per gestirlo), per salvare, riqualificare e far ripartire le industrie falcidiate dalla crisi economica e da una competizione globale insostenibile, a meno di non abbracciare salari e orari di lavoro modello Foxconn.
Un’attenzione particolare dovrebbe, poi, essere riservata al Sud-Europa, al fine di salvaguardarne la dignità e i diritti e di impedire la trasformazione dei nostri giovani e dei nostri lavoratori in un esercito industriale di riserva al servizio dei padroni del vapore nord-europei: oltre ad essere un progetto disumano, al pari di chi lo auspica e lo persegue, sarebbe destinato a fallire perché in un mondo globale e interconnesso come quello nel quale siamo chiamati a vivere oggi non esiste solo l’Europa e nuove economie, nuovi modelli industriali e di sviluppo si stanno affermando in paesi che mai avremmo pensato di dover considerare all’avanguardia, a cominciare da un Sudamerica in piena fase espansiva.
Sappiamo che queste nostre idee verranno derise, considerate vetuste e riposte nel cassetto da quell’1 per cento della popolazione mondiale dominante che prospera sulla disperazione del restante 99; sappiamo che è già accaduto a fonti assai più autorevoli di noi e che, quindi, non riusciremo a smuovere più di tanto le coscienze; tuttavia, sappiamo anche che portare avanti queste idee, cantare fuori dal coro e proporre una visione del mondo più sopportabile e più attenta alle esigenze della collettività, talvolta, produce pure miracoli come la vittoria di Corbyn al congresso del Labour e l’avanzata di Sanders nella corsa alla nomination democratica oltreoceano. Alle volte, le buone idee trovano molte più gambe sulle quali camminare di quanto non immaginassero i loro sostenitori iniziali.