Ho firmato e ho diffuso subito la petizione #nohatespeech e, per invitare ancora una volta tutti a firmare, dico semplicemente no ai discorsi d’odio. No a ogni forma d’incitazione a respingere l’altro, il diverso, lo straniero ma anche semplicemente quanti non condividono le nostre convinzioni. Dico no anche ad ogni forma di speculazione sulle paure e le incertezze che sempre più pervadono le nostre vite, che provengono dalle difficoltà economiche, dal lavoro che non c’è o che si perde, dal futuro che si allontana anche per i più giovani e i più capaci, ma che per qualcuno è proficuo incanalare in scomposti movimenti populisti dall’esito sempre storicamente disastroso.
E’ facile, giusto, ovvio dire no a quanti ignobilmente approfittano in questo modo della crisi, economica, sì, ma ormai diventata sociale, culturale, crisi che travolge le certezze e il rispetto di sé di interi ceti sociali come di tanti individui.
Eppure non basta firmare una petizione, che pure è precisa, ha obiettivi chiari e facilmente raggiungibili, se non ci fosse in giro tanta malafede.
Malafede anche inconsapevole, vissuta con naturalezza soprattutto nel mondo della comunicazione e sulla quale tutti noi, insieme e soprattutto nel nostro spazio individuale, dobbiamo riflettere e prendere coscienza. Scriveva Hannah Arendt della banalità del male che aveva individuato in un gerarca nazista assassino come Adolf Eichmann, che, per tutto il corso del processo a suo carico, dimostrò di non aver mai avvertito nelle sue azioni alcuna responsabilità individuale: disse che si era limitato a seguire degli ordini e di essere stato solo una piccola rotella di un grande ingranaggio. Sembrerà eccessivo, ma teniamolo a mente anche nel nostro semplice, innocente agire quotidiano, forse le nostre ragioni non verranno ascoltate da chi decide, ma non facciamo in modo da essere noi i primi ad adeguarci e non insistere perché il racconto delle notizie cambi; se siamo convinti di quanto affermiamo, un piccolo risultato un giorno e magari un altro piccolo risultato il giorno dopo riusciremo a ottenerlo, spesso è la pigrizia culturale più delle scelte politiche a far pendere la bilancia verso il livello più basso.
E’ facile, ripeto, dire e dirsi che non intendiamo in alcun modo usare nel nostro linguaggio parole che siano oltraggiose verso il diverso e insieme verso quanti ci leggono, ci guardano o ci ascoltano. E dicendolo ne siamo anche profondamente convinti. Poi però, spesso, troppo spesso, ci distraiamo nella corsa al successo, siano i dati Auditel come il numero di copie vendute o le pagine visitate sui nostri siti. E si sa, l’Editore, l’Azienda, il Direttore ci chiedono di battere la concorrenza, a fin di bene, certo: se in prima pagina apriamo sulle demenziali richieste del razzista di turno (magari amministratore locale o europarlamentare, sempre comunque di sicuro effetto sul nostro pubblico), poi però compensiamo, all’interno, raccontando di quel bravo immigrato (eh sì, non lo chiameremo mai extracomunitario anche se in effetti sappiamo che lo è), bravo, sì, perché si è fatto ammazzare per sventare una rapina, o è affogato dopo aver salvato qualcuno che rischiava di annegare, o è schiantato sotto al sole mentre lavorava nelle nostre campagne. Non basta: le parole dell’odio si nutrono degli insulti urlati e delle proposte oscene, e noi, per presunto dovere di cronaca, le rilanciamo, anche se sono contro la legge.
Ha ragione Valerio Cataldi, la campagna #Nohatespeech riguarda tutti, ma proprio tutti. Ma noi giornalisti e comunicatori abbiamo una responsabilità enorme e non possiamo sottrarcene. Ogni giorno dobbiamo prendere coscienza, nelle nostre redazioni, durante la riunione di sommario, mentre riferiamo al responsabile del nostro desk cosa abbiamo seguito sul campo, che anche dalle nostre più banali scelte sgorgheranno effetti duraturi. E’ facile dare spazio ai fomentatori di odio, mentre è impresa difficile, dura, complicata, la scrittura di una storia nella sua complessità, il racconto di una persona nella sua interezza, la ricostruzione di un percorso che non è nato ieri e non finirà oggi, e neanche domani. Inseguire i singoli fatti, per quanto drammatici e urgenti, impedisce di vedere il quadro d’insieme. E se i nostri utenti, gli unici che dobbiamo considerare nostri azionisti di riferimento, non vedranno il quadro d’insieme potranno essere facilmente spinti sulla strada dell’odio.
Non basta mostrare il corpicino di Aylan affogato (io ho scelto di farlo su Facebook perché, oltre agli incitatori di odio, non sopporto le ipocrisie di quanti, con la scusa del rispetto per le vittime, non vogliono vedere in faccia i fatti crudi); non basta raccontare la disperazione delle migliaia che si trascinano in mezzo al filo spinato pur di raggiungere il porto sicuro della grande madre Europa. Dobbiamo denunciare cosa succede nei loro paesi, e non solo in Siria, ma anche in Eritrea, Somalia, Sudan, Mali, Nigeria e tanti altri, e svelare le complicità che quei governi ricevono a casa nostra.
Dobbiamo raccontare la loro vita, la loro storia millenaria, il loro elevato livello culturale, le loro tradizioni che non parlano solo di sharia o di abusi, ma hanno il suono delle loro musiche, le parole dei loro poeti, i colori dei loro artisti. Conoscere è l’unica arma contro la paura e, quindi, contro la ripulsa. Scriveva Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”