La Cina, l’America, l’Europa e il futuro

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Al termine di un’estate che ha visto i mercati mondiali andare in fibrillazione a causa dell’esplosione della bolla cinese, con i suoi rialzi borsistici eccessivi e ingiustificati per mesi, il suo crollo e la necessita, da parte del governo e della Banca centrale, di intervenire per scongiurare il peggio, abbiamo avuto la prova provata del fallimento di un modello di cui già in Occidente avevamo ampiamente avuto modo di verificare l’insostenibilità, sancita dal settennio di crisi che abbiamo alle spalle e che sembra, purtroppo, destinato ad allungarsi.

È inutile girarci intorno: i problemi della Cina risalgono al momento in cui, dopo la morte di Mao, con l’avvento di Deng e del denghismo, il paese si è convertito a una sorta di insostenibile ibrido, mescolando liberismo e dirigismo statale, speculazione finanziaria e controllo serrato dell’unico partito ammesso su ogni movimento di mercato. È un modello che, palesemente, non può funzionare, in quanto, oltre a far lievitare la corruzione, tende ad esaltare gli aspetti peggiori di due sistemi incompatibili: gli eccessi burocratici di uno statalismo asfissiante, condizionato dalla mancanza di un confronto democratico vero e dall’assenza di una competizione elettorale che sola potrebbe rimuovere la cappa di sporco e di stantio che sta diventando ormai soffocante, e la ferocia di “spiriti animali” del tutto disinteressati al futuro del Paese e all’emancipazione di quei vasti settori della società che finora sono stati scientemente tenuti ai margini della folgorante crescita del Dragone, trattati alla stregua di schiavi, costretti a vivere nell’indigenza e a lavorare in fabbriche in stile Foxconn, come se fossero macchine, meri esecutori robotici di ordini superiori, anziché esseri umani dotati di una dignità e di diritti inalienabili.

Ed è qui, nella scomparsa dell’uomo dall’orizzonte della politica e dell’analisi economica, è nella promozione di uno sviluppo industriale feroce e disumano, è in una crescita squilibrata ed eccessiva che ha portato all’arricchimento smodato di capitalisti senza scrupoli e senza valori che vanno ricercate le cause dell’affanno di una Nazione che per vent’anni è stata utilizzaata come alibi dai padroni del vapore di casa nostra, con l’unico scopo di smantellare la legislazione sociale e farci tornare indietro di mezzo secolo sul piano delle conquiste democratiche, e oggi sta lì, immobile e priva di ogni slancio, a testimoniare che abbiamo inseguito un’utopia malata, destinata a lasciare dietro di sé solo macerie.
La vera crisi cinese, infatti, il reale motivo d’allarme di cui purtroppo si parla poco nel nostro dibattito pubblico non concerne tanto le fibrillazioni di una borsa divenuta isterica ad ogni latitudine; la vera crisi cinese si trova nelle campagne ancora afflitte dalla più assoluta indigenza, negli stabilimenti in cui non si contano più i suicidi degli operai, nell’inquinamento pericoloso che sta subendo l’intero ecosistema di quel Paese, nell’impossibilità di una convivenza civile fra classi dirigenti sempre più ricche, spregiudicate e intente ad imitare il personaggio di Michael Douglas in “Wall Street”, ossia a farsi interpreti di un capitalismo senza regole, senza cuore e senza alcun principio etico, e classi subalterne sempre più povere, sfruttate e prive di prospettive per il futuro, con l’ovvio risultato di una deflagrazione di questa bomba a orologeria, la quale, scoppiando, ha seminato il panico ovunque.

Abbiamo visto allora gli operatori di borsa costretti a nascondersi, abbiamo visto gli investitori che reclamavano i propri soldi, abbiamo visto i volti terrei di chi sta cominciando a rendersi conto di essere stato ingannato per quattro lustri e vediamo ora un gigante in panne che ci ricorda tanto l’Unione Sovietica al momento della sua dissoluzione: un gigante dai piedi d’argilla, fragile, sfiancato; un mostro in lotta con se stesso, attraversato da una guerra civile strisciante, da una continua lotta intestina per la sopravvivenza, da condizioni di vita intollerabili e da sperequazioni che sono la causa e la conseguenza tangibile del collasso di un sistema che non poteva durare ancora a lungo, reggendosi su una barbarie legalizzata, difesa a oltranza con la repressione e la censura, in una stagione nella quale la “net economy” ha abolito il concetto stesso di distanza e reso il flusso di informazioni autenticamente globale.

La Cina sta franando a causa della sua struttura di governo verticistica e tirannica, della sua visione antistorica della gestione del potere e dei rapporti di forza, della sua connivenza con un Occidente al quale ha consentito per anni, anzi per decenni, di esportare le proprie fabbriche e le proprie industrie, servendosi di una manodopera a basso costo, sfruttata e ridotta quasi in schiavitù, al fine di gonfiare l’altra grande bolla su cui il regime si è basato finora: quella di un PIL a due cifre che non ha retto, e non poteva reggere, per il semplice motivo che non ha arrecato il benessere sperato alla popolazione, non ha elevato poi di molto la classe media e non ha riscattato i ceti popolari, liberandoli dal ghetto di povertà nel quale sono stati, al contrario, ancor più segregati. 
Si è arricchita solo l’alta borghesia, qualche esponente del ceto medio ha tentato la scalata ai vertici della società e magari ce l’ha fatta pure ma la maggior parte di coloro che aspiravano ad elevare la propria condizione economica e il proprio status sociale si trovano oggi con in mano un pugno di mosche, in un Paese stremato e in lotta con se stesso, condannato a ripensarsi da cima a fondo e ad abbandonare questo maodenghismo insostenibile che, come detto, costituisce un ibrido nel quale gli aspetti peggiori dei due sistemi si prendono per mano, dando vita a un obbrobrio che sta travolgendo le vite e le aspettative di milioni di persone.
Tuttavia, la bolla cinese costituisce, al tempo stesso, la cartina al tornasole del disastro morale di quest’Occidente cinesizzato, sconvolto da vicende che si svolgono a migliaia di chilometri di distanza ma si abbattono sulle nostre esistenze senza fornirci spiegazioni, senza che la nostra inadeguata classe dirigente sia in grado di opporsi o, quanto meno, di regolare, controllare e governare una deriva che sta conducendo la nostra zattera a sbattere contro gli scogli di una ripresa che non c’è o, quando c’è, non è in grado di arginare la progressiva proletarizzazione del ceto medio e il senso di alienazione, straniamento e solitudine di quelle classi sociali che hanno costituito per decenni la nostra spina dorsale.

E l’Europa, ci spiace dirlo, dà l’impressione di essere, assai più degli Stati Uniti, una “nave sanza nocchiero in gran tempesta”, un punching-ball sottoposto ai colpi di due colossi che si sfidano prendendosi a cazzotti, in una sorta di guerra fredda 2.0 assai più sottile e finanziaria di quella che abbiamo conosciuto per mezzo secolo, in ambito economico e geopolitico, fra la potenza americana e quella sovietica.
L’Europa trasmette un senso di resa e di impotenza, priva com’è di una visione, di un orizzonte, di una prospettiva, prigioniera di dogmi fallimentari e falliti, ostaggio delle sue profonde contraddizioni e del suo allargamento intempestivo, condizionata dalla presenza di paesi che non possiedono standard democratici all’altezza di un progetto inclusivo, nato nel dopoguerra per scongiurare il rischio di una nuova catastrofe bellica, e oggi, a meno di un radicale cambio dirotta, destinato ad esaurirsi.
Anche perché, è inutile negarlo, le catastrofi ce le abbiamo in casa: il tracollo cinese che fa svanire le nostre residue certezze, la crisi ucraina, il Medio Oriente e il Nord-Africa in fiamme e le possibili, imponderabili conseguenze di un eventuale rialzo dei tassi d’interesse ad opera della FED, non a caso scongiurato con forza, quasi affidandosi a riti magici, dai nostri governanti e dalle nostre pseudo-classi dirigenti ridotte al vassallaggio.
È il triste destino di un continente che sarebbe potuto diventare la culla del welfare, dei diritti e dell’affermazione di una nuova socialità al passo coi tempi e si è invece ridotto ad essere la brutta copia di modelli sociali e di sviluppo che già vent’anni fa, con la crisi delle Tigri asiatiche e i primi scandali legati alla “new economy”, mostravano la loro debolezza e inconsistenza. 
Abbiamo perso tutti, tutto, a cominciare dalla nostra cultura politica e dai nostri principi costituzionali; e ancora oggi, siamo talmente privi di un pensiero politico-economico diametralmente alternativo a quello che ha dominato l’ultimo trentennio da credere che basti un rimbalzo in borsa e qualche dato positivo sul versante di una crescita economica comunque esigua e senza respiro per risolvere i problemi di società nelle quali è stata alterata la scala delle priorità, nelle quali si è trasformato il vizio in virtù, il superfluo in necessario e l’eccesso in un qualcosa che è ormai universalmente accettato, finendo col perdere noi stessi e ciò che conta davvero nella vita.


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