Trasferiamoci in Vicolo della Polvere Rossa, l’unica strada di Shangai restata miracolosamente intatta tra la selva dei grattacieli e a dispetto dei cambiamenti epocali che hanno sconvolto la Cina dal tempo di Mao Tse-Tung, il Grande Timoniere, ai giorni nostri. La speculazione edilizia incalza, la marcia di modernizzazione del gigante asiatico è inarrestabile, le ruspe attendono impazienti di piallare le ultime vestigia del buon tempo andato, spazzare via quell’angolo inutile che non ha più ragione di esistere pur avendo resistito a tutti i radicali rivolgimenti di regime. Per capire come sia potuto accadere bisogna giungere alle pagine finali dell’ultimo, affascinante libro di Qiu Xiaolong, dedicato non a un’indagine dell’ormai celebre ispettore capo Chen Cao, ma al quartiere che lo ha allevato e che riesce a dipingere con tocchi d’acquarello e malinconia crepuscolare.
Le brevi storie sono introdotte, anno dopo anno, da un tazebao, “Il notiziario su lavagna del Vicolo della Polvere Rossa” che ci informa succintamente sulle decisioni del Partito, i progressi della Rivoluzione Culturale, le misure per contrastare la criminalità imperialista, la rieducazione degli intellettuali, l’annuncio delle grandi conquiste in ogni campo della scienza e dell’economia. Ma lascia trapelare anche la condizione di terrore e di estrema indigenza in cui è tenuto il popolo da uno Stato poliziesco, padrone di vita e di morte; e l’immenso sacrificio individuale richiesto al cittadino in nome di un ideale rivoluzionario che porterà al trionfo del comunismo. Dietro ogni porta della ‘shikumen’, le minuscole casette a schiera al cui interno si affollano anche più famiglie, scopriamo volti, episodi, gesti, azioni, sofferenze, amori, esaltazioni che soltanto un grande talento letterario è in grado di evocare con tanta umana verità. Avvertiamo il battito dei cuori, gli odori delle cucine, le voci degli abitanti che, prima di coricarsi, siedono la sera sulla strada a discutere gli avvenimenti del giorno.
Per il lettore è un’emozione inaspettata, l’immersione in una cultura così diversa eppure così familiare perché l’essere umano è il medesimo sotto ogni cielo. Anche perché quel vento dell’Est ci ha sfiorato nell’ebbra esaltazione del Sessantotto e oggi, seppellita l’ideologia, ci investe con l’irruenza di una bufera finanziaria che sta ridisegnando i connotati stessi del mondo. Avventurandosi nel Vicolo della Polvere Rossa si sconfina nel recinto di un’umanità palpitante, una “Spoon River” di vivi e non di morti, da cui lasciarsi assorbire dopo poche righe, come se fossimo sempre vissuti in quella strada. “All’estremità settentrionale del Bund si trovava una passeggiata curvilinea prospiciente la distesa d’acqua luccicante, e offriva una vista panoramica sull’andirivieni delle navi sullo sfondo del lontano Mare Cinese Orientale”. Xia, la ragazzina che al parco, capelli neri lunghi fino alle spalle, leggeva un ‘libretto rosso’ che in realtà era un dizionario di inglese-cinese, e prendeva lezioni proibite da un vecchio insegnante che fingeva di sedere casualmente sulla stessa panchina, è diventata una delle maggiori immobiliariste della metropoli. A lei è stato dato il compito di bonificare quella zona di Shanghai. E il ragazzo che la spiava dalla panchina di fronte, incapace di rivolgerle la parola, ma tenendo tra le mani un testo inglese solo per far colpo su di lei, è diventato un filosofo, un anglista di nome. Che però un giorno, pur avendo superato le proibizioni del regime, per trasferirsi presso una università americana, aveva scelto di restare nella sua città, a dirigere un’importante collana di classici in nome della letteratura e per amore delle radici e della propria gente.
Lo ritroviamo caduto in disgrazia dopo piazza Tienanmen: “Se un governo sparasse sugli studenti, allora sarebbe un governo fascista, e io restituirei la tessera del Partito”. Per vivere si è ridotto a leggere il futuro nel Vicolo, interpretando gli ideogrammi seduto su uno sgabello di bambù; pratica l’antica glifomanzia cinese che affonda le radici nell’I King, il libro oracolare dei mutamenti. Ed è a lui che Xia va a chiedere un responso, così che il cerchio si chiude. In mezzo sono passati oltre cinquanta anni di vicende quotidiane di tutti gli abitanti del Vicolo, dal 1953 al 2008, storie misconosciute sullo sfondo della grande storia con la S maiuscola che ha ingoiato ogni singola esistenza come un Leviatano. Ma come dice un proverbio cinese: “Non esistono storie senza coincidenze”. Qualcuno ormai vecchio ritrova l’amore, qualche altro va al mercato delle pulci a vendere la statua di Mao a grandezza naturale acquistata a costo di indicibili privazioni nell’illusione di fare carriera; ma c’è anche il libraio signor Ma che ritorna a casa dopo venti anni di carcere duro, condannato perché teneva negli scaffali una copia del Dottor Zivago di Pasternak in lingua straniera. “E’ noto che i romanzi vengono sfruttati per cospirare contro il partito”, aveva sentenziato Mao. Tuttavia la moglie lo ha atteso imperterrita accettando l’unico lavoro che le viene concesso, spazzare all’alba, col freddo e col caldo, il selciato del Vicolo con una scopa che è più alta di lei. Gli ultimi capitoli, fra tutti, sono di struggente poesia.
Nel vicolo si insedia una bottega per i ‘massaggi’, con due ragazze che hanno tariffe precise per ogni prestazione; si intitola “La prospettiva degli scarafaggi” e possiede una potenza visionaria sullo sfruttamento sessuale femminile che travalica ogni latitudine. Superbo è il racconto delle focaccine alle erbacce, un cibo quasi incommestibile all’epoca della rivoluzione proletaria che torna di moda nell’ottica vegetariana della società consumistica: “Fresche, bio e piene di fibre” esulta il nipote di Testadimarmo Yang; e avvia un business milionario alla faccia del vecchio operaio, duro e puro, che con quelle focaccine punitive voleva soltanto “ricordare l’amarezza del passato e apprezzare la dolcezza del presente”.