Nel taxi del regista Jafar Panahi entra la gente di Teheran, di ogni estrazione, per parlare liberamente. Perché fuori, nella strada, non si può, c’è la censura di un regime opprimente che condanna ogni dissidenza. Lo stesso regime che ha condannato il regista al carcere per la sua posizione a favore dei diritti umani, vietandogli di girare film, rilasciare interviste e uscire dall’Iran per 20 anni.
A Teheran il taxi si prende insieme ad altri che fanno la stessa strada e quindi si viaggia con sconosciuti.
La situazione ideale per Panahi per trasformare il suo taxi che guida personalmente in una piccola repubblica democratica viaggiante, un’area extraterritoriale dove viene ripristinata la libertà di parola, almeno fino a destinazione.
“Ho visto stamattina una macchina a cui avevano rubato tutte e quattro le ruote – fa un passeggero appena salito, inquadrato dalla telecamera fissata sul cruscotto – fossi io al potere impiccherei due ladri al giorno come quelli giustiziati ieri e vedi come gli passa la voglia” “L’impiccagione di quei due poveri ladri non servirà a niente – fa la maestra con il velo seduta dietro, perché si ruba anche per necessità. E’ una pena disumana e basta” Panahi guida e ascolta, e dal suo sguardo sereno non traspare alcun giudizio.
Si illumina solo quando fa salire la sua amica avvocata, sospesa dall’ordine solo perché ha difeso una ragazza condannata per aver voluto vedere una partita di palla a volo, nonostante il divieto per le donne. Panahi nota il grande fascio di rose rosse. “Una come te, con quelle rose – fa con un sorriso amaro – o va a festeggiare una liberazione o a consolare la famiglia di un condannato” “Sono per i parenti della ragazza. Sta facendo quello che abbiamo fatto anche noi, lo sciopero della fame. Accosta, scendo qui. Questa rosa la lascio vicino alla tua telecamera, perché quando c’è la dittatura si può contare solo sulla gente del cinema”.
“Ho riconosciuto l’uomo che mi ha derubato – fa un altro passeggero amico, che sale a bordo per parlargli come in un confessionale – ma poi ho saputo che con i soldi che mi tolto ha pagato i suoi debiti e salvato il suo negozio. Allora non l’ho denunciato”.
Panahi accosta frammenti di storie di colori diversi, fino a tessere un tappeto armonioso di vita. Con libertà e senza mai tradire odio per chi lo ha costretto a girare tutto il film chiuso in un taxi ed esportato clandestinamente. La libertà dell’arte, ci dice con la sua resistenza non violenta, crea spazi di democrazia piccoli, ma tenaci. Come le rose che crescono vincendo la siccità. (Orso d’oro a Berlino 2015)
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