Le responsabilità della Volkswagen nel “Dieselgate” sono chiare ed inequivocabili. In molti sapevano tra i dirigenti del colosso, i funzionari europei degli enti di controllo, nello stesso governo Merkel, ma tutti si sono tenuti il segreto imbarazzante per anni. Eppure, un altro colpevole del “lungo sonno della ragione” c’è: la cosiddetta libera stampa. Quella di settore soprattutto e i giornalisti specializzati nei motori. Un mondo questo che da decenni ormai tesse lodi ed elogi sulla carta stampata, in Radio e in TV, di qualsiasi modello venga presentato e che si limita a qualche prova su strada con molta prudenza di giudizio. Come spesso accade, anche nel giornalismo sportivo e, in misura meno determinante, in quello economico, è grazie ad indagini della magistratura o a qualche inchiesta di enti non governativi o associazioni consumeristiche che vengono scoperti i sofisticati e remunerativi “trucchi” del mercato.
Non c’è dubbio che l’inquinamento sia, insieme alla disoccupazione dilagante, al terrorismo fondamentalista e alle malattie endemiche, uno dei nemici da battere per la comunità mondiale. Non a caso Papa Francesco ne ha fatto uno dei punti cardinali delle sue allocuzioni recenti davanti alle istituzioni internazionali (assemblea ONU), ai potenti della terra (Obama e Parlamento USA), alla gente comune e nelle sue encicliche.
Ma i mass-media, che purtroppo inquinano le menti e gli animi dell’opinione pubblica globalizzata, hanno un compito fondamentale, che spesso dimenticano per gli interessi dei loro “padroni-editori” (gruppi industriali, costruttori automobilistici, banche e società finanziarie), delle leadership politiche (i governi riescono a controllarli con sofisticata capacità) e degli inserzionisti pubblicitari: quello etico di ricercare la verità ovunque e comunque, di farsi “cani da guardia” dei salotti del potere, di tutelare la propria autonomia, professionalità e libertà di espressione.
Ebbene, da troppo tempo assistiamo invece ad una sorta di “sonno della ragione” del giornalismo mondiale, nonostante si siano create delle organizzazioni no-profit che svolgono con estrema difficoltà inchieste ed accertamenti, spesso anticamera delle indagini giudiziarie e degli enti istituzionali preposti al controllo di frodi e distorsioni del mercato: si pensi all’International Consortium of Investigative Journalism, l’ICIJ che ha svelato gli intrecci tra finanza, governi e grandi multinazionali con il Luxembourg Leaks e lo Swiss Leaks; o anche la Trasparency International; o ancora, su altri versanti, Reporters sans Frontières.
Quel che stupisce in questo, come in altri scandali, è proprio lo “stupore” degli addetti ai lavori. In primis i politici, che dovrebbero conoscere le leggi del mercato e gli strumenti che vengono presi per aggirarle dalle multinazionali, sia industriali sia finanziarie. I governi occidentali, che si basano essenzialmente su establishment legati all’ideologia dell’iperliberismo, siano essi di centrodestra o di centrosinistra, “non perdono tempo” a curarsi delle distorsioni di quel “libero mercato” che pure in concreto tutelano. E i tanti enti di controllo spesso si devono attenere a legislazioni e regolamenti dettati dalle potenti lobbies affaristiche, che sempre più spesso “dettano legge” per far “scrivere leggi” non sfavorevoli, quando non proprio fotocopie degli interessi di cui sono portatrici.
Ora si scopre, con grande battage mediatico, che il diesel sarebbe più inquinante della benzina e dei motori ibridi, facendo un indiretto favore a quelle grandi case costruttrici che su sistemi di propulsione diversi, come benzina e ibridi, stanno basando i loro affari e successi commerciali. A ben vedere, così non è del tutto vero. Tutti i motori, anche i più “verdi” in qualche modo inquinano.
E tutto ciò accade alla vigilia del Summit sul clima, che a dicembre si terrà a Parigi con i massimi rappresentanti di 200 nazioni, per cercare di siglare un nuovo accordo per combattere l’inquinamento e ridurre le emissioni di anidride carbonica, dopo lo storico Protocollo di Kyoto del 1997, andato per lo più eluso o disatteso. Se le “Tigri d’Oriente”, come la Cina, l’India, la Thailandia e la Corea del Sud, in questi due decenni da quel Protocollo, hanno conosciuto uno sviluppo enorme a scapito della tutela dell’ambiente e della salute degli uomini, non è che gli Stati Uniti siano stati da meno. I Paesi non aderenti al Protocollo di Kyoto e poi di Doha (Usa, Canada, Giappone, Russia, Cina, India, Brasile, Messico, Sud Africa e Nuova Zelanda) sono responsabili del 40% delle emissioni mondiali di gas serra. Gli Stati Uniti, da soli, emettono biossido di carbonio, gas serra, per il 36%, contribuendo al formarsi del buco nell’ozono e dello scioglimento dei ghiacciai “perenni”.
In alcuni stati federali americani sono state introdotte norme restrittive per i veicoli a motore, specie i diesel (che sono i minori responsabili delle emissioni di CO2) ma poi si sono “dimenticati” degli scarichi industriali e dell’enorme consumo di energia elettrica dovuto all’uso sconsiderato dei sistemi di raffreddamento e riscaldamento. Tanto da creare alterazioni climatiche che in estate contribuiscono alla siccità, ai continui incendi e alla desertificazione di vaste aree.
Ma forse 500 mila auto VW “truccate” possono contribuire ad alterare così nel profondo l’equilibrio dell’ecosistema statunitense?
Certo, la Volkswagen ha commesso una frode. E sull’inquinamento non si deve transigere. E comunque la legislazione europea è tra le più esigenti ed avvedute nel mondo. Ma attenzione a non perdere di vista la trave che si asconde dietro la pagliuzza: l’inquinamento è soprattutto industriale e legato ai sistemi di vita, specie di quei paesi che finora si sono opposti ai vari Protocolli. In ballo ci sono migliaia di miliardi di dollari di profitti. Ci sono le guerre non dichiarate tra le industrie automobilistiche e moto, tra quelle petrolifere; c’è lo spionaggio industriale anche tra i paesi considerati “amici” e la corsa alla supremazia tra chi intende scegliere nuove fonti energetiche non inquinanti: dall’elettricità, ai sofisticati e, per ora allo stadio di prototipi, motori ad acqua o aria.
E’ compito dei giornalisti, di tutti i mass-media, investigare, scoprire, riportare con obiettività, senza farsi partigiani di una scelta o di un’altra, senza diventare “fanatici” dell’ecologia fondamentalista, affinché l’opinione pubblica non venga tenuta all’oscuro di scelte speculative o diventi partecipe di dispute falsamente ambientaliste, come stiamo già vivendo, a scapito della nostra salute e della tutela del pianeta.
Dopo il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater della British Petroleum, nel Golfo del Messico il 20 aprile del 2010 (milioni di barili di petrolio che ancora galleggiano sulle acque di fronte a Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida, oltre ad ammassi chilometrici sul fondale marino), quest’anno il Dipartimento di Giustizia statunitense ha ricevuto dalla BP l’accettazione di pagare 18,7 miliardi di dollari, in 18 anni. Qualcosa è quindi cambiato nella mission strategy della nuova BP: da British Petroleum il nome è cambiato in Beyond Petroleum: “oltre il petrolio” e il logo è diventato una sorta di sole verde e giallo. E forse anche la Volkswagen, oltre a dover sborsare una cifra analoga alla BP (come se fosse responsabile di un analogo disastro ambientale!), potrebbe seguirne l’esempio, trasformando il logo “l’auto del popolo” in Volks Willkommen (an bord): “benvenuti a bordo gente ”…