Il 14 settembre 1988 Cosa nostra uccide il giudice Alberto Giacomelli. Il 14 settembre 1992 super killer tentano di uccidere il poliziotto Rino Germanà. Comune denominatore, la vendetta per avere messo le mani sui beni dei mafiosi
Il giudice Alberto Giacomelli fu ammazzato quando oramai da qualche tempo aveva lasciato la toga, era in pensione. Fu ammazzato a poca distanza dal suo podere nelle campagne trapanesi, a Loco grande. Rino Germanà quando subì l’agguato era tornato a fare il commissario a Mazara del Vallo. Un passo indietro nella carriera, lui che a Mazara c’era già stato, poi aveva guidato la Squadra Mobile di Trapani, era arrivato ai vertici della allora Criminalpol siciliana, doveva fare un ulteriore salto perché Paolo Borsellino nel frattempo andato a fare il procuratore aggiunto a Palermo aveva chiesto che Germanà diventasse l’investigatore di fiducia, ma la strage di via D’Amelio mise anche fine a quel progetto.
I vertici della Polizia dopo la strage di Capaci chiesero a Germanà di ritornare a dirigere il commissariato di Mazara. Il 14 settembre 1992 nel tragitto verso casa a bordo di una Panda di servizio, nel primo pomeriggio, sul lungomare Tonnarella di Mazara, Germanà fu inseguito da un super commando di mafiosi, a bordo di una Fiat Tipo c’erano Matteo Messina Denaro (alla guida), Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Ci fu un conflitto a fuoco, Germanà sfuggì ai killer. Comune denominatore tra Giacomelli e Germanà non è solo la data degli agguati subiti, 14 settembre, anche se di anni diversi, ma anche qualcos’altro. L’attacco ai beni della mafia. Giacomelli fu ammazzato perché nei giorni del suo delitto era diventata definitiva una confisca da lui decisa qualche anno prima, la sentenza da lui firmata riguardava la confisca di una abitazione posseduta a Mazara da Gaetano Riina, fratello del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. In quei giorni del settembre 1988 la mafia cercava giudici da ammazzare, Giacomelli fu un bersaglio perfetto, dodici giorni dopo toccò stessa crudele sorte al giudice Saetta, ammazzato a Caltanissetta. Germanà da investigatore nell’indagare sui mandamenti mafiosi trapanesi a suo modo si era messo anche lui a indagare sui possedimenti mafiosi, da capo della Squadra Mobile di Trapani era andato a cercare il malaffare dentro la Banca Sicula di Trapani, quella del banchiere Tonino D’Alì, oggi senatore della Repubblica.
Nessun collegamento diretto tra il suo attentato e quel rapporto, ma quando Germanà ha avuto modo di ricordare l’attentato subito nel mettere in fila i fatti che lo hanno riguardato non ha mai saltato la circostanza che l’attentato arrivò dopo la firma di quel rapporto e mentre si stava occupando dei rapporti tra mafia e politica, Borsellino prima di morire gli aveva chiesto di indagare sui rapporti pericolosi dell’allora ministro Mannino. Oggi si mastica amaro a ricordare questi due accadimenti. Siamo dinanzi a due progetti criminali mafiosi nati indubbiamente dalla reazione della mafia e di quei mafiosi che non gradivano ieri, ma anche oggi, l’azione dello Stato per la confisca dei loro beni. Oggi c’è una indagine che sta scuotendo il Palazzo di Giustizia di Palermo, a proposito di procedure giudiziarie non limpide sulle fasi successive ai sequestri e alle confische. Va dato atto che ad alzare il coperchio di questa pentola è stato un giornalista, Pino Maniaci di Telejato. Mastichiamo amaro perché ci sono stati magistrati e investigatori ammazzati, o fatti trasferire, per avere messo mano sui beni di Cosa nostra. A Trapani prima di Giacomelli, nel 1983, fu ammazzato il sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto, il magistrato che ancora prima della leggi Rognoni – La Torre, quella che nel 1982 ha introdotto non solo il reato di associazione mafiosa, 416 bis, ma ha aperto la strada ai sequestri e alle confische, aveva messa la mano sulle proprietà dei mafiosi.
Nei giorni del suo omicidio teneva allineati su di un tavolo del suo ufficio una serie di assegni , i movimenti bancari dell’allora potente famiglia mafiosa alcamese, quella dei fratelli Rimi. Ciaccio Montalto fu ucciso il 25 gennaio 1983, quando era prossimo il suo trasferimento a Firenze, scelta non casuale, perché in Toscana Ciaccio Montalto sapeva già che avrebbe trovato le stesse cosche che combatteva da magistrato a Trapani, Cosa nostra in quegli anni con l’aiuto della massoneria aveva trovato gli spazi giusti per infiltrarsi in quella Regione. Dinanzi a questi morti oggi chi è chiamato a rispondere di gravi reati relativamente alla gestione dei beni sequestrati e confiscati dovrebbe interrogarsi non una ma mille volte. Giudici ammazzati, da una parte, giudici che si sarebbero fatti corrompere dall’altra parte. Condividiamo le parole del presidente di Libera, don Luigi Ciotti, la pensiamo come lui, «Fermo restando che bisogna aspettare l’esito delle indagini e l’accertamento delle responsabilità, il quadro che sta emergendo dall’inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni confiscati a Palermo è allarmante». Eppure non erano mancati i segnali. Abbiamo ricordato le inchieste giornalistiche fatte da Pino Maniaci da Telejato, ma c’erano state anche la parole di un prefetto.
E’ stato ancora don Ciotti a ricordare quelle parole: «Quello che sta emergendo in Sicilia – quadro già denunciato a suo tempo dal Prefetto Caruso, ex direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati davanti alla Commissione antimafia – è un’ulteriore riprova della loro urgenza. Ora aspettiamo che la politica rompa gli indugi e ponga concretamente mano a quelle modifiche». E però oggi non bisogna perdere fiducia per non uccidere ancora una volta chi è stato ammazzato per avere toccato i beni di Cosa nostra: «Non possiamo rischiare che una misura fondamentale di lotta alla mafia come la legge 109 diventi, da strumento di giustizia sociale, strumento di privilegio, di abuso di potere, di scambio di favori – ricorda ancora Don Ciotti – In una parola di quella corruzione che, se non è propriamente mafia, alla mafia certo non sbarra la strada». «Da tempo – prosegue don Ciotti – Libera insiste sulla necessità di rinnovare e anche di ripensare l’antimafia, ripulirla dalle zone d’ombra, dagli usi strumentali, dai collegamenti col malaffare, con la corruzione e in certi casi con le stesse mafie. Ma è in particolare sui beni confiscati che, insieme ad altre realtà, abbiamo presentato proposte concrete volte a garantire il loro effettivo riutilizzo, velocizzare i tempi dell’iter amministrativo, dal sequestro all’assegnazione, colmare i vuoti organizzativi e di personale degli uffici preposti. All’interno di queste proposte – attualmente ferme in Commissione Giustizia alla Camera – una riguarda proprio la figura chiave dell’amministratore giudiziario, per la quale riteniamo urgente istituire un albo, definire delle linee guida, studiare dei meccanismi che garantiscano standard di competenza e integrità».
La mafia oggi non uccide più, ma continua fare avvertire il proprio fetido alito, con una serie di attentati che da qualche tempo vengono compiuti nei terreni e nelle aziende confiscate e affidate a cooperative apposta nate, da Castelvetrano ad Agrigento, dalla Sicilia alla Calabria, sino alla Campania. Episodi che si ha l’impressione vengono sottovalutati, non certamente dalla magistratura, ma senza dubbio da parte della politica e degli amministratori dei territori dove questi atti sono stati compiuti come segno di sfida. Torniamo all’agguato subito dal poliziotto Germanà, in pensione dallo scorso maggio, dopo essere stato questore a Forlì e a Piacenza. Lontano dalla Sicilia. Perché quell’agguato un obiettivo lo raggiunse, la mafia minacciando pesantemente quel poliziotto che voleva ammazzare ha ottenuto il suo immediato trasferimento lontano dalla Sicilia, un investigatore memoria storica delle indagini contro Cosa nostra che così contro Cosa nostra non ha potuto più indagare, assegnato ad altri incarichi. Dopo quell’agguato si ritrovò anche a fare il dirigente del commissariato di frontiera, all’aeroporto di Bologna. Bagarella e Graviano erano latitanti quando tentarono di ucciderlo, l’unico ancora libero di circolare era il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Contro Messina Denaro il primo ordine di cattura arrivò infatti nel giugno del 1993, e lui riuscì ad evitare le manette perché già da qualche settimana era diventato “uccel di bosco”. Quindi non era ancora latitante Matteo Messina Denaro quando il 14 settembre 1992 tentò di uccidere Rino Germanà. L’agguato restò fallito perchè Germanà seppe reagire, si difese e sfuggì ai killer. Il 6 novembre del 1992 Matteo Messina Denaro incappò in un posto di blocco, forse questa fu per la Polizia che continua a braccarlo l’ultima occasione di poterlo avere a portata di mano, ma contro di lui non c’era ancora alcun ordine di cattura. Quel giorno di novembre di 23 anni addietro, Matteo Messina Denaro fu controllato presso l’area di servizio IP dello svincolo A29 di Castelvetrano, mentre era in compagnia su di una Renault Clio di due poi riconosciuti sodali, Giuseppe Fontana, soprannominato Rocky e Giovanni Agate. Nomi ancora oggi ricorrenti, assieme a quello di Matteo Messina Denaro, nelle cronache mafiose della provincia di Trapani.