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I giornalisti sono più disonesti dei politici quando non fanno il loro dovere

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Sono fermamente convinto che l’onestà intellettuale sia un atteggiamento morale e interiore che per un giornalista dovrebbe rappresentare la normalità. Attenersi ai fatti vuol dire trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi antipatico. Sfortunatamente quasi tutti i giornalisti, piccoli o grandi che siano, sono schierati e sottoposti alla politica e all’editore di turno. Per me, da sempre, essere coerenti ha significato affermare una tesi e sostenerla con fermezza e non il giorno dopo rinnegarla per convenienza sconfessando chi ha avuto fiducia in te.

I giornalisti (non tutti ovviamente) hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica. Ho sempre pensato alla figura del giornalista come il “mastino da guardia” del potere, il controllore per eccellenza, il garante dei cittadini. Un ruolo che in molte parti del mondo esiste, mentre in Italia va scomparendo del tutto e la prova risiede nel fatto che il nostro Paese perde ventiquattro posizioni nell’annuale classifica mondiale sulla libertà di stampa. So che in molti contesteranno questo mio assunto ma credo che la stampa sia ancora troppo poco indipendente rispetto al potere inteso in senso lato. In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo vero mestiere: denunciare e raccontare la verità. Per difendere queste prerogative spesso il giornalista paga con l’estrema punizione e cioè il licenziamento ma non mancano sanzioni quali l’estromissione, l’annullamento, l’emarginazione, del resto, di casi famosi ne è piena la storia (emblematico è il caso Biagi-Rai). Se ti metti contro i poteri forti sai a priori che pagherai un prezzo molto alto che in alcuni casi coincide persino con l’eliminazione fisica (cfr. Mino Pecorelli).

Forse le nuove leve potranno essere una speranza. Il problema però è un altro. In tutte le categorie, e quindi anche nel giornalismo, regna sovrano il nepotismo. Prima il merito aveva più spazio, oggi, tra due aspiranti giornalisti impreparati e uno preparatissimo, se ci sono due posti e i primi hanno la raccomandazione entrano loro e il meritevole va fuori dall’Italia o resta disoccupato. Una via d’uscita possibile sarebbe il web, dove si potrebbe realizzare qualcosa di nuovo e soprattutto di indipendente. Quest’ultimo percorso però non è tra i più facili. Un tempo sui giornali scriveva gente come Pier Paolo Pasolini che, anche se era inviso al potere poteva avere un suo spazio libero. Pasolini, ad esempio, scrisse cose improponibili oggi sulle pagine del Corriere della Sera, opinioni eretiche che non troverebbero spazio in nessun giornale. Questo tipo d’intellettuale è esistito in Italia per molto tempo e oggi più che mai sarebbe necessario al nostro Paese. Forse sbaglio, ma non riesco a individuare personaggi di questo calibro e anche se ci fossero di certo, non troverebbero spazio nei quotidiani d’oggi.

Questo è uno dei drammi del giornalismo contemporaneo. Il giornalista per assolvere la sua funzione più intima, oggi, dovrebbe impedire lo svilupparsi della corruzione, frenare la criminalità organizzata, controllare e vigilare sulle opere pubbliche fondamentali, reclamare il funzionamento dei servizi sociali, tenere allerta le forze dell’ordine, sollecitare il funzionamento della giustizia, richiamare all’ordine i politici al buon governo e al bene comune. Questa dovrebbe essere l’essenza del vero. Credo che l’informazione in senso stretto sia giunta al capolinea. Non la professione, ma l’informazione in se stessa. Non credo che sia una morte definitiva, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ma per eccesso, nel senso che ci sono talmente tante notizie e spesso contrastanti che diventa difficile conoscere la realtà di un fatto. Oggi regna sovrana la confusione quindi per molti è difficile individuare la verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto e cioè non raccontare la realtà dei fatti. Solo questo è il peccato imperdonabile che può commettere. Non essere coerenti con se stessi. Tradire se stessi, vuol dire non essere uomini ma, come sosteneva Sciascia, appartenere all’ultima categoria del genere umano che lui indicava con un epiteto che preferisco non scrivere.

già Docente di Diritto Penale presso l’Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma
Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sulla Corruzione in Roma
Direttore Scientifico della Scuola della Legalità “Don Peppe Diana” – Roma
Editorialista de “L’Ora” di Palermo e della Gazzetta del Mezzogiorno


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