L’informazione – in particolare quella radiotelevisiva – tace completamente il fatto che in queste settimane è in corso una campagna di raccolta delle firme necessarie (cinquecentomila) per otto referendum i cui quesiti (sull’Italicum, il jobs act, la riforma della scuola e la conversione ecologica dell’economia: trivellazioni e grandi opere) sono stati presentati da Pippo Civati e altri dieci elettori alla cancelleria della Corte di cassazione lo scorso 16 luglio e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del giorno successivo.
Il silenzio è talmente assordante che il Comitato promotore – proprio come accadde nel 2011 – si è rivolto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni chiedendo il suo intervento, «al fine di assicurare il rispetto, da parte delle emittenti pubbliche e private, del diritto all’informazione dei cittadini». Infatti, con delibera 226/11/CSP del 5 settembre 2011, l’Autorità stabilì che «le emittenti radiotelevisive sono invitate a riservare nei programmi di informazione uno spazio adeguato all’argomento della raccolta delle firme per la promozione dei referendum popolari […] nell’osservanza dei principi di pluralismo, obiettività, completezza e imparzialità dell’informazione radiotelevisiva».
Proprio quei principi che anche durante questa campagna di raccolta delle firme sono stati fino ad ora (forse più che mai) violati e che sarà ancora una volta l’Autorità – in base ai propri precedenti – a dover ristabilire.
Naturalmente la questione del pluralismo e della libertà di informazione non è certo nuova nel nostro Paese ed è stata spesso oggetto di censura da parte delle istituzioni internazionali: ricordiamo, oltre alle numerose sentenze sulla assegnazione delle frequenze, il parere negativo espresso sulla legge Gasparri dalla Commissione di Venezia all’indomani della sua approvazione, nel 2005. Normalmente, però, la questione è stata quantomeno oggetto di critiche e proteste da parte di alcune forze politiche. In questa circostanza, invece, la violazione dei principi del pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione sembra accettato – se non auspicato, diciamo – praticamente da tutte le forze politiche.
In effetti, la diffidenza nei confronti del referendum ha radici profonde, che affondano nella stessa Assemblea costituente, dove l’ampio progetto del relatore Mortati, che avrebbe reso possibile, tra l’altro, ai cittadini di votare direttamente le proposte di legge di iniziativa popolare non esaminate dal Parlamento (come di recente riproposto proprio da Civati), fu ridotto al solo referendum abrogativo. Successivamente la stessa diffidenza si è manifestata in diverse forme: dal blocco (per ventidue anni) della legge di attuazione alla previsione – quando quest’ultima è stata poi approvata – di procedure farraginose volte a ridurre le iniziative, dall’oscuramento mediatico agli inviti a «andare al mare» (per evitare il raggiungimento del quorum di partecipazione inficiando così la validità del referendum).
Nel caso che ci occupa, per il momento, come dicevamo, l’oscuramento è pressoché totale (se si escludono testate on line e Il Fatto quotidiano). Ciò rischia di impedire un confronto chiaro con gli elettori – e tra gli elettori – circa alcune riforme che, generalmente su iniziativa del governo in carica, sono state approvate da una maggioranza in continua trasformazione, senza alcun collegamento con un programma elettorale (e anzi spesso in contraddizione con quello del partito di maggioranza relativa: particolarmente evidente in proposito il caso del jobs act).
In effetti, la sfida è proprio questa: riavvicinare gli elettori, che sempre più spesso disertano le urne (i dati delle elezioni europee e regionali sono in tal senso particolarmente preoccupanti) a partire da alcune questioni concrete, mostrando che la politica non è ciò che riguarda gli eletti, ma gli elettori, appunto. Se gli organi di informazione svolgessero davvero la loro funzione, in ossequio a quei principi di pluralismo e imparzialità già ricordati, dovrebbero dare a questo il massimo rilievo.