In difficoltà a reggere l’urto della concorrenza di Sky e a fronte della nuova era dei Google o dei Netflix, Mediaset sembra aver intrapreso una lunga marcia verso un cambio del business prevalente. Non solo televisione generalista. Di qui il corteggiamento di Telecom, il matrimonio annunciato della casa di Segrate con Rcs-libri e i consistenti investimenti sui diritti del calcio. Ma, soprattutto, è in corso la conquista della radio. E’ stata, infatti, creata una newco costituita da Mediaset e da quella famiglia Hazan, nome storico del settore fin dal 1976, che proprio ieri ha rilevato da Rcs Mediagroup il restante 44,5% della Finelco già partecipata al 55,5%. Quindi, a R101 di Mondadori (la vecchia Milano International) si aggiungono Radio Montecarlo, Radio 105 e Virgin. Insomma, un 16,5% del mercato specifico, maggiore delle percentuali del Gruppo Espresso, di RTL, di Radio Dimensione Suono. Cui va aggiunta la pubblicità in concessione di un bel grappolo di stazioni. E pure di Radio Rai, seconda con l’11,5%. Naturalmente, siamo ben al di sotto del limite del 20% di quel Sic (Sistema integrato delle comunicazioni) immaginario della legge Gasparri del 2004. Tuttavia, la delibera n.555 del 2010 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni definiva la radio un mercato autonomo e, quindi, si rende ora doveroso verificare se sussiste una posizione dominante. Insomma, non è più vero che “l’assetto competitivo risulta poco concentrato…”, come recita a pag.81 la relazione annuale dell’Agcom.
Perché la radio suscita un simile interesse, apparentemente contro un tempo mediale proiettato ai futuri crossmediali? I motivi sono svariati e, purtroppo, il lungo sonno della politica non li vuole cogliere. Le leadership preferiscono il salotto televisivo, che risponde benissimo alla messa in onda dello spettacolo postpartitico. Con l’idea che l’esibizione in video dei corpi paghi in termini di consenso. Peccato che non ci sia Orson Welles a tenere una lectio magistralis sulle modalità efficaci di comunicazione e peccato pure che Brecht o Roosevelt non siano protagonisti del dibattito. Dove sosterrebbero il ruolo straordinario, “meta-fisico” della voce, che mette in moto un impero di sensi. Ecco, la radio sopravvive all’agonia del video tradizionale, data la naturale predisposizione all’interazione con la rete e con tutti gli altri mezzi. C’è da scommettere che Mediaset farà giocare in sinergia radio e tv, attitudine che la compartimentazione chiusa del servizio pubblico non riesce ad agire. Tra l’altro, il Biscione deve aver fiutato l’affare. La raccolta pubblicitaria cala, ma nella radio no. Anzi. Nel giugno di quest’anno è aumentata del 16,5% sul 2014, ad esempio. Un filoncino d’oro, sottovalutato incredibilmente dal dibattito pubblico. E non solo. La radio è il veicolo essenziale per l’accesso nei consumi di massa della musica. La crisi dell’industria discografica trova un surrogato almeno parziale nell’ascolto delle emittenti e nei servizi a sottoscrizione come Spotify e nella vendita mediante iTunes o Amazon. La radio è il luogo principale della costruzione degli eventi musicali e della stessa divulgazione dei brani. O della riconoscibilità degli autori. E nel 2016 vi sarà l’auspicata maturazione del Dab, il digitale: da non confondere con un apparecchio sofisticato, adatto all’automobile. E’ la frontiere di una sintassi evoluta. Si tratta della fusione con la rete. Infine, non dimentichiamo, la radio è un archivio immenso. Ce l’ha ricordato Radio radicale nel convegno tenuto all’Enciclopedia Treccani, che invita a capire come sia in gioco l’egemonia culturale.