Jafar Panahi racconta così il suo bisogno di fare cinema, il suo percorso di libertà, il suo desiderio di rendere visibile l’invisibile che il regime vuole tenere celato ed è da ieri nelle sale con “Taxi Teheran”, pellicola regina al Festival di Berlino lo scorso febbraio, realizzata dal regista iraniano dopo la condanna a sei anni di carcere del 2010, tramutata poi in libertà su cauzione per propaganda anti-islamica con il divieto per Panahi di lasciare il paese e di realizzare: “opere d’ingegno artistico ed intellettuale” per venti anni.
Un divieto aggirato dal regista montando una telecamera sul cruscotto di un taxi di cui lo stesso Panahi è il conducente, e liberare così i pensieri imprigionati attraverso il racconto delle strade di Teheran e le faccende umane dei passeggeri che si susseguono; dal venditore di dvd banditi dal regime, all’avvocatessa impegnata nella difesa dei diritti umani sino alla nipotina Hana Saeidi, -che per lui ha anche ritirato l’Orso d’oro a Berlino-, e con la quale apre un dialogo sulla censura, sul “crimine di lesa anima”, come lo definiva Flaubert.
“Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema”, Darren Aronofsky, Presidente della giuria del Festival così aveva motivato la scelta del premio all’opera clandestina del regista iraniano e “Taxi Teheran” lo è davvero, ma è anche una lettera d’amore alla sua terra, malinconica e dolente, capace però del sorriso invincibile della libertà.
Un’opera non autorizzata dal Ministero per l’Orientamento Islamico e quindi priva di titoli di coda, ma tra le ultime righe immaginifiche si legge di Panahi, uomo limpido, poeta della bellezza che racconta con ironia e intelligenza l’innocenza e la dignità di anime in rivolta contro l’oppressione.
Sei anni fa Articolo21 con la collaborazione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia organizzò una proiezione di “Questo non è un film”, opera del regista Panahi