In principio, la grande cucina italiana è stata portata alla ribalta mediatica, rivalutata e amplificata nel suo splendore mondiale da tre “Cavalieri solitari”: il regista e scrittore Mario Soldati, il più grande giornalista sportivo Gianni Brera e l’eclettico professore di filosofia Luigi Veronelli, il primo vero “maitre à penser” dell’arte culinaria in Italia.
Stefano Bonilli è stato il discepolo indiretto del grande Luigi Veronelli. Per un certo periodo della loro esistenza si sono “scontrati” e incontrati, si sono fatti una cordiale concorrenza giornalistica, a colpi di recensioni e critiche. Filosofo e anarchico, il Vigorelli, morto nel 2004, giornalista militante e comunista il Bonilli, scomparso a Roma il 4 agosto del 2014 per infarto. Solo un anno fa e, purtroppo, già scomparso nel deserto dell’oblio mediatico!
Ma entrambi appartenevano a una stirpe di comunicatori eccezionali: grandi divulgatori, imperterriti curiosi, scopritori di luoghi, persone e materie eno-gastronomiche. Soprattutto avevano avuto il grande intuito di divulgare al maggiore pubblico possibile i segreti della buona cucina, della qualità dei cibi, della bio-diversità degli alimenti, del buon bere. Ancor più se, alzandosi poi da tavola, il conto non era salato e insieme al cibo per il corpo si arricchiva anche il cibo per la mente. Fu così che dagli anni Ottanta in poi tutto quanto ruotava intorno alla tavola imbandita non fu più appannaggio di élite, di chi poteva permettersi ristoranti con chef stellati dalla guida Michelin o dalla concorrente Gault e Millau dell’Espresso. E anche il grosso pubblico, specie quello “di sinistra” cominciò a scoprire un mondo che anni addietro aveva ritenuto fosse “di destra”, frivolo, da sovrastruttura capitalistica.
Mangiare e bere, in realtà, secondo Veronelli e Bonilli (specie per Stefano), aiutano ad accrescere il proprio bagaglio culturale, a preservare la pluralità delle offerte eno-gastronomiche, a difendere il “particolare” dei luoghi più remoti del paese, degli usi e costumi tramandati da generazioni, capire l’Italia degli “umili” e dei lavoratori della terra: agricoltori, allevatori, viticoltori.
Certo, Veronelli, con il suo grande fascino di affabulatore televisivo conquistava un pubblico ampio e si permetteva di usare anche un linguaggio a volte aulico e volutamente forbito. Ma restava sempre ancorato alle tradizioni vere, alla voglia di far apprendere anche ai meno acculturati i segreti della mangiare e bere di qualità. Suo degno erede, oltre che suo storico discepolo, è Davide Paolini, “ll Gastronauta” del Sole 24 ore e di Radio 24. Bonilli e Paolini, entrambi emiliano-romagnoli di estrazione geo-culinaria (anche se Stefano era nato in Veneto nel 1945, ma poi diventato bolognese di adozione), buone forchette e anche capaci divulgatori. Di quei commensali che a tavola ti sanno dire tutto e di più della storia di quello che si sta mangiando e bevendo. Ma lo fanno con allegria, semplicità e amore.
Ecco, Bonilli era uno che amava questi temi. Ci conoscemmo in RAI, a via Teulada, quando lui aveva dei contratti di collaborazione con il TG2, oltre che redattore politico del Manifesto. Quando si poteva mi parlava del suo amore per la divulgazione della cucina, del vino, delle trattorie-osterie romane (uno dei suoi ultimi articoli sul suo sito http://www.gazzettagastronomica.it/2014/te-la-ricordi-comera-roma-a-tavola-negli-anni-80/).
Collaborava con il grande Tito Cortese, ideatore e curatore della prima rubrica televisiva sul consumerismo e non solo, “Di tasca nostra”, una fucina di giornalisti economici che stavano dalla parte dell’opinione pubblica, che denunciava scandali e veleni e anticipava il movimento ecologista. Per Stefano fu una palestra di divulgazione “popolare” e di conoscenza del mezzo televisivo, che poi gli tornò utile quando lanciò il canale satellitare TV “Gambero rosso”.
In quei tempi parlavamo spesso di terrorismo, stragi, tentativi di colpi di stato, della sinistra radicale frammentata e parolaia, inconcludente, che non riusciva a stare al passo con i tempi. Tra una discussione e l’altra “alla Manifesto”, o come dicono gli intellettuali francesi “impegnati a rifare il mondo”, si passava ad argomenti più “terreni”, quelli che interessavano “la pancia” degli intellettuali gauchisti. E qui, il Bonilli si districava su cammini a lui cari e tutti noi restavamo a sentirlo parlare, a “bere” le notizie, a carpire luoghi, cibi e nomi, etichette. Spesso ci annunciava di voler abbandonare tutto per dedicarsi a questo nuovo filone della comunicazione. Noi, che ci sentivamo molto “impegnati”, al momento non capivamo il senso rivoluzionario della sua scelta. Ma quando uscì il primo inserto di Gambero rosso (la famosa osteria del Pinocchio di Collodi) insieme al Manifesto, capimmo che aveva tracciato un solco nuovo nel panorama informativo. Ma non fino al punto di come poi nei decenni a venire si è sviluppato.
Dopo Gianni Brera, Mario Soldati e Luigi Veronelli, Bonilli va annoverato tra i grandi divulgatori e difensori del patrimonio “basilare” dell’Italia concreta. Il silenzio mediatico, dopo la sua morte, un anno fa, è assordante e ingiusto. Chissà se qualcuno avrà la forza e l’intelligenza di far conoscere la storia e le sue intuizioni con un documentario o l’istituzione di un premio dedicato ai giovani “divulgatori enogastronomici”. In questo pullulare di programmi televisivi sulla cucina, una sessantina tra digitale terrestre e satellitare, con chef urlanti e sconclusionati concorrenti spietati, ritornare alle origini pacate, affabulatrici e, perché no, anche letterarie, della nostra tradizione enogastronomica sarebbe davvero un ottimo servizio culturale. A cominciare dalla RAI, che lo vide autore e innovatore proprio con le prime trasmissioni di Gambero rosso.