Come nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo dei film trasmessi in televisione, ecco l’interruzione pubblicitaria della nomina dei vertici della Rai. Secondo i rituali della sbeffeggiata ma sempiterna legge Gasparri. Il primo capitolo della messa pagana si è compiuto con l’elezione dei sette componenti del nuovo consiglio di amministrazione da parte della commissione parlamentare di vigilanza. Seguono ora i due di emanazione governativa, tra i quali si colloca il nome del presidente, che diverrà effettivo con il parere reso dalla stessa commissione di vigilanza. Ed è atteso il Godot del rito, vale a dire il direttore generale, al quale saranno attribuiti a legge approvata i poteri dell’amministratore delegato: il fiore all’occhiello della (contro)riforma renziana.
Il tutto dovrebbe consumarsi in un baleno. A quanto si sussurra e si grida, il predestinato Ad è Antonio Campo Dall’Orto, MTVItalia-Telecom Italia-La7-Viacom-Leopolda. Chissà chi lo sa. Il totonomine sulla presidenza indicherebbe una donna, secondo una vulgata assai edulcorata della parità di genere: scoperta a giorni alterni, possibilmente dove il potere si affievolisce. Quanto ai volti dei neo-amministratori, il bon ton impone una prudente attesa, pur scorgendo professionalità collaudate e un brillante “guru” dei media, Carlo Freccero.
Non a caso votato da 5Stelle e da Sinistra, ecologia e libertà. Purtroppo, non ce l’ha fatta Ferruccio De Bortoli, suggerito -in limine- dalla minoranza piddina ad un partito piuttosto ostile verso gli eretici, tra le cui fila è finito persino l’ex direttore del Corriere della sera, a causa forse di qualche editoriale non allineato. Quanto è accaduto, però, non va valutato come se fosse un Talent. Il giudizio negativo prescinde dalla qualità dei singoli. Il meccanismo di nomina è desueto, ingiallito e tale da rendere inesorabilmente “minore” il medesimo organismo consiliare. Il baricentro si è spostato nettamente verso la parte “fiduciaria” del governo: un capo azienda con molti galloni, ma privo di una missione. Appunto.
L’incredibile e ingiusto destino che tocca al servizio pubblico sta proprio in tale astrusa contraddizione: mano dura, conduzione di impresa, gerarchia accorciata, ma non si sa per fare che. Freccero ha subito parlato della necessità di valorizzare l’informazione e la fiction. Come? Con il piano del direttore generale uscente Gubitosi o con un progetto coraggioso e creativo? Cinema e audiovisivo italiani ed europei o semplice messa in onda di serie americane (pur intriganti e di eccellente fattura)? E Il rapporto con Cinecittà, vero tesoro italiano gestito oggi in maniera discutibile? Il discorso si potrebbe allargare a numerosi aspetti che attengono al senso e all’attualità di un servizio pubblico-bene comune nell’era digitale. I nomi –dunque- andavano immaginarti, al di là delle casacche politiche, sulla base di un progetto. Che non pare al momento esistere. A meno che non sia tenuto nascosto. L’urgenza di una strategia non è un bisogno teoretico, bensì un obbligo dettato dall’imminente scadenza della convenzione con lo stato. Purtroppo, hanno vinto la conservazione, il viaggio all’indietro nel tempo: il trionfo della lottizzazione perfetta. I partiti in Rai sono di più, non di meno.
Un flop di governo e maggioranza, che in nobile sinergia hanno buttato al vento elaborazioni e proposte venute da parti significative della comunità mediatica. Non per fretta, ma per scelta: il passaggio dal servizio pubblico ad un’azienda governativa di relativa importanza.