“E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile”. (Bertolt Brecht, da “L’eccezione e la regola”).
La regola troppo spesso nella Russia di Vladimir Putin verso chi nutre un pensiero diverso è la colpa, e così accade che il fetore dell’ingiustizia per i sopravvissuti all’ideologia imposta si tramuti ciecamente in legge. In questa fragilità dei diritti da cui non proviene alcuna luce, il regista ucraino Oleg Sentsov (nella foto) è stato condannato da un Tribunale del Distretto Militare russo di Rostov a venti anni di carcere per terrorismo, dieci anni di reclusione al co-imputato l’ecologista e attivista antifascista Alexandr Kolchenko.
L’accusa per la quale il regista era stato fermato da agenti del FSB, il servizio segreto federale russo, a maggio del 2014 era di aver preparato atti di sabotaggio e terrorismo in Crimea, tra i quali anche la distruzione di una statua di Lenin, insieme al regista e con le stesse accuse, erano stati arrestati anche Oleksiy Chyrniy e Ghennadi Afanasiev, già condannati in precedenza a sette anni di reclusione.
Secondo Amnesty International, che ha seguito direttamente le udienze, le condanne, sono il frutto “di un processo palesemente irregolare e segnato da credibili accuse di tortura”.
Il diritto internazionale umanitario, prevede infatti che: “la Russia in quanto potenza occupante in Crimea debba processare ogni imputato secondo la legge Ucraina e in tribunali ordinari”, diritto a Oleg Sentsov palesemente negato.
Caduti nel vuoto anche gli appelli di molti intellettuali e cineasti come Ken Loach, Pedro Almodovar e Win Wenders, il carnefice non ha dubbi e si nutre delle sue vittime sventurate
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