di Maria Gianniti
Il New York Times alcuni giorni fa, nella sua pagina degli Editoriali, ha dedicato spazio a un’iniziativa del Dipartimento della Difesa americano che ha preparato un Manuale nel quale da’ la sua interpretazione del cosiddetto “codice di guerra”. Un documento molto ricco (piu’ di mille pagine), il primo nel suo genere, sottolinea il NY Times, che include anche regole ben precise per i giornalisti che coprono zone di conflitto.
E qui si leggono definizioni preoccupanti: i giornalisti sono ovviamene considerati dei civili, ma in alcuni casi possono essere visti come dei “combattenti non privilegiati”, una definizione che li rende particolarmente fragili e in alcuni casi, agli occhi del Dipartimento della Difesa, anche pericolosi. Questo perche’ durante la copertura giornalistica, i reporters in zone di guerra possono venire a conoscenza di informazioni sensibili che possono determinare l’andamento del conflitto stesso. Secondo il Manuale della Difesa americana, i giornalisti devono essere così sottoposti a controllo e invita anche altri governi ad applicare eventuale censura sui propri reporters.
Se queste misure dovessero essere adottate, non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi, sarebbe un colpo pesante alla liberta’ di stampa. Un’ipotesi che il NYTimes, tra le testate piu’ autorevoli a livello mondiale, respinge duramente.
William Howard Russell, giornalista irlandese, fu il primo corrispondente di guerra. A metà ‘800 il suo giornale, il Times di Londra, lo mandò a seguire il conflitto in Crimea. Fu la prima volta che un civile si ritrovò a vedere con i propri occhi cosa accadeva su un campo di battaglia e a non fare solo affidamento ai dispacci militari. Raccontò il lato drammatico della guerra, la sofferenza, la morte. Scrisse che la guerra non era solo fatta di vittorie o sconfitte militari, ma anche di tanto sangue versato in trincea.
Da allora ci sono sono state decine di nuove generazioni di corrispondenti di guerra. I conflitti con il tempo sono cambiati. Oggi l’informazione viaggia sempre piu’ veloce attraverso tante piattaforme, non certo il semplice telegrafo, unico mezzo su cui poteva fare affidamento Russel nell’inviare le sue cronache dal campo. Sempre piu’ testate, travolte dal calo di vendite, pensano che non sia piu’ necessario mandare un proprio inviato, limitando così i costi e anche riducendo i rischi.
Mai come oggi andare soprattutto in alcune zone di conflitto rappresenta un pericolo. In Siria ad esempio, dall’inizio della crisi nel 2011, più di 80 giornalisti sono stati uccisi. Altre decine hanno vissuto il dramma del rapimento e ancora oggi ci sono dei reporters nelle mani di gruppi jihadisti.
Se un Manuale come quello messo a punto dal Dipartimento della Difesa americano venisse adottato, allora si farebbe un balzo indietro di quasi duecento anni.
Certo, continueremmo a leggere, vedere immagini, ascoltare suoni dei conflitti, ma non avremmo più racconti originali. È fondamentale continuare ad avere occhi e orecchie indipendenti in paesi in guerra. Ci sono inviati di grande esperienza che vogliono continuare a mettersi in gioco, come quelli del Servizio Pubblico che, purtroppo, più di una volta, sono stati bloccati per motivi di sicurezza.