Se ne va Renato Zangheri e vien quasi da pensare, con una punta di amara ironia, che abbia scelto la stagione giusta: la sua stagione, quell’estate in cui nel ’70 fu eletto sindaco della città felsinea, succedendo a un monumento come Guido Fanti (primo presidente dell’Emilia Romagna); quell’estate che lo vide protagonista di due tragedie, nel ’74 (la bomba sul treno Italicus esplosa all’altezza di San Benedetto Val di Sambro) e nell’80 (la barbarie nella stazione di Bologna, con ottantacinque morti e oltre duecento feriti). E in quelle occasioni, prima ancora dell’abilità del politico, si poté ammirare la grandezza dell’uomo, la sua partecipazione commossa al dolore dei familiari delle vittime, la sua vicinanza a una città e a una regione ferite nel profondo, la sua ferma condanna nei confronti di qualunque forma di odio e di violenza. Perché Renato Zangheri non era solo un ottimo amministratore, una persona di cultura e un innovatore, capace di coniugare welfare e sviluppo armonico della città e del tessuto sociale, applicando concretamente i suoi studi economici e sul socialismo e aprendosi a una collaborazione fattiva con le realtà più controverse e turbolente dell’universo giovanile: era, più che mai, un rivoluzionario, sempre all’avanguardia rispetto alla realtà e ai protagonisti del suo tempo.
Non bisogna dimenticare, infatti, che gli anni di Zangheri, sindaco dal ’70 all’83, oltre che con le stragi di Stato prima menzionate, coincidono anche con l’apice delle manifestazioni e delle rivolte studentesche, nel corso delle quali, l’11 marzo 1977, muore lo studente di Medicina Pier Francesco Lorusso. E ancora una volta Zangheri si rivela più avanti rispetto al comune sentire dell’opinione pubblica e del suo stesso partito, considerando che persino Berlinguer aveva tuonato dal palco della Festa dell’Unità di Genova: “Non saranno questi poveri untorelli a spiantare Bologna”. Zangheri invece spalanca porte e finestre, si apre al movimentismo, discute e dà vita a iniziative come il “Piano giovani”, “Ritmicittà” e il memorabile concerto rock dei “Clash” in piazza Maggiore, dimostrando una capacità rara per un dirigente comunista di quegli anni di confrontarsi con un mondo oggettivamente ostile e spesso quasi più critico nei confronti del PCI che delle forze di governo.
D’altronde, sarebbe sbagliato sorprendersi, specie se un po’ si conoscono le qualità della classe dirigente emiliana: una scuola di amministratori e di pensatori feconda, una palestra di idee e di innovazioni, un’isola felice nel cuore di un Paese già allora pieno di problemi e, proprio per questo, più volte colpita dalla furia omicida di chi temeva che il vento del cambiamento che si stava alzando da Bologna e dall’Emilia potesse diffondersi ed essere d’esempio altrove.
Di quella scuola, Zangheri è stato uno dei più assidui e consapevoli interpreti, racchiudendo in sé la capacità visionaria di Dozza, la concretezza di Fanti, il pragmatismo tipico degli emiliano-romagnoli e una massiccia dose personale di cultura, competenza e abilità nel far convivere teoria e pratica, precetti e azioni.
Eletto deputato nell’83, divenne capogruppo del PCI a Montecitorio, portando anche a Roma la sua visione del mondo, la sua sobria serietà mai incline al piagnisteo o all’autocompiacimento, la sua attenzione costante e profonda nei confronti di tutto ciò che si muoveva dentro e, soprattutto, fuori dai palazzi del potere.
Un politico come ne nascono pochi, Renato Zangheri: prima di tutto uno studioso, un uomo colto e perbene, una figura di cui avremmo un gran bisogno in quest’epoca di politicanti improvvisati e amministratori locali senza scuola. Un uomo, forse, irripetibile, al pari degli anni in cui ci si poteva vantare nel mondo del fatto di vivere a Bologna.