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Rai, da sempre terra di conquista. Serve una “Public company” per liberarla

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Come difendere e sviluppare un Servizio Pubblico RadioTV Universale? In giro si leggono proposte più o meno “romantiche”, che si rifanno ai “bei tempi” della riforma del 1974, alla TV di Zavoli, Barbato, Guglielmi, Curzi, dimenticandosi che quella RAI era frutto di una stagione politico-sociale-culturale irripetibile, figlia del suo tempo. L’aver ripetutamente riproposto negli ultimi 20 anni quel modello non ha portato a nulla, se non all’imbarbarimento della lottizzazione attraverso non più le segreterie dei partiti, ma con l’affermarsi di lobbies, salotti e centri di potere più o meno occulti, nazionali e internazionali. La RAI è diventata ostaggio dei governi (da Berlusconi col metodo Gasparri, a quelli di centrosinistra, fino a Monti e, da ultimo, Renzi), terra di conquista di 4/5 società private che “chiavi in mano” detengono la programmazione e la produzione di qualsiasi forma di prodotto editoriale (vale anche per Mediaset): intrattenimento, informazione tipo talk show, TV movie, serial e film, fino ai documentari scientifici e culturali sui canali digitali).

Di fatto la RAI, escluso il settore giornalistico dei TG e GR, è stata privatizzata con il sistema dell’appalto, garantito da alcuni settori di partiti, al governo e/o all’opposizione, e da alcune lobbies affaristiche. Con il beneplacito della Commissione di Vigilanza parlamentare, che molto discetta e poco controlla o sancisce.

Per rifarsi una coscienza politica ad uso dell’opinione pubblica, i diversi partiti propagandano la salvaguardia del Servizio pubblico, ma nelle segrete stanze elaborano progetti di spartizione dei consiglieri, dei direttori a tutti i livelli e della prosecuzione dello “statu quo” produttivo degenerativo, che invece lo sta affossando.

Non basta, per tirarsi fuori da questo andazzo, riandare con la memoria ai bei tempi antichi della “supremazia” RAI. Chi negli ultimi venti anni aveva il potere politico per cambiare la deriva della strisciante privatizzazione “d’appalto”, nulla o pochissimo ha fatto per fermarla: né leggi, né decreti, né si è tirato fuori dal sistema spartitorio.

Qualcuno dovrà alla fine, oltre a rivendicare meriti culturali non propri, almeno fare pubblica autocritica, se vuole ancora essere accreditato di una chance politica!

Ma si sa che “la vittoria è di tutti e la sconfitta è di uno solo”: tutto il male della RAI sembra essere sempre addossato alla componente giornalistica, l’unico però che a livello professionale e sindacale in questi decenni ha cercato di porre la questione della salvaguardia del Servizio pubblico, la fine della spartizione partitica, la separazione della governance dalle mani dell’esecutivo, la difesa degli spazi di autonomia e di produzione contro l’invadenza della lobby degli appalti.

Come uscire allora da questa situazione infognata? Come dar vita ad un nuovo Servizio Pubblico Universale, che tenga conto delle nuove piattaforme internet, che sia davvero fautore di un’alfabetizzazione digitale e propugnatore di cultura all’altezza dei tempi della banda ultralarga? Che sia capace anche di intercettare “i sogni e i bisogni” delle nuove generazioni, che sappia raccontare il paese reale e che sappia anche intrattenere senza scadere nel marciume di programmi ormai omologati e insulsi?

La soluzione più adeguata a questi tempi di rivoluzione digitale, di supremazia internettiana, sarebbe quella di trasformare la RAI in una Public Company, privatizzandola con il più grande operatore di contenuti internet del mondo, come Google ad esempio, e aprendo una parte del capitale all’azionariato diffuso (fondi di investimento, pensionistici, più una parte riservata ai dipendenti e a fondi raggruppanti abbonati). Con l’istituzione di una Fondazione, separata dalla società di gestione vera e propria, che controlla “gli indirizzi etico-culturali”, abolendo l’antistorica Commissione di Vigilanza, significherebbe sottrarla al dominio soffocante degli appetiti politici di governi e minoranze.

Significherebbe, inoltre, apportare capitali freschi, utilizzare innovazioni tecnologiche e di prodotto per contrastare il dominio oligopolistico di network commerciali come SKY Italia (monopolista del satellitare e sempre più presente sul Web) e Mediaset (dominatrice delle risorse per programmi premium e monopolista nella produzione-distribuzione di film). Assolverebbe così al compito istituzionale di “alfabetizzazione digitale” e di “volano della cultura” nell’era del Web e dei social network, dell’e-commerce e dell’informazione globale, non solo nazionale e regionale.

E’ la tendenza che ormai sta prendendo il sopravvento, specie nel settore della multimedialità, negli USA, dove il colosso privato radio-TV, NBC/Universal (controllata dal colosso di trasmissione via cavo, la Comcast, a sua volta editrice del canale economico più ascoltato al mondo come CNBC e di quello informativo via Web MSNBC, in collaborazione con Microsoft) ha di recente investito 200 milioni di dollari in VOX Media, editore di vox.com, del sito Re/code e del portale di tecnologia The Verge. E’ previsto anche a breve un altro investimento simile in Buzzfeed, altra società mediatica innovativa, operativa sul Web. VOX Media e Buzzfeed insieme hanno avuto oltre 134 milioni di utenti unici nel 2015, con un pubblico fatto per il 30% di utenti internet tra i 18 e 34 anni. Un’utenza che statisticamente è poco propensa ad usufruire della tradizionale TV generalista, mentre si sposta con maggiore frequenza sulla Web TV, quasi per niente sul satellitare, preferendo inoltre anche il via cavo e le App degli smartphone.

Una pubblico del genere è quello che dovrebbe raggiungere un Servizio pubblico Universale, cioè una RAI libera dalle catene della politica, e rilanciata sul mercato multimediale con capitali freschi e con libertà di sperimentare e innovare.

Secondo l’ultima Relazione annuale stilata dall’AGCOM: “Google è ormai il primo operatore di raccolta pubblicitaria in Italia e nel mondo: controlla il 31% del mercato della pubblicità online a livello mondiale (stimato nel 2014 in100 miliardi), mentre in Italia la quota di mercato controllata è compresa fra il 40% e il 60%. Google rappresenta in Italia il sito più utilizzato per informarsi (21,5% degli utenti). Sul piano dell’audience, le prime posizioni sono occupate dagli operatori che forniscono soprattutto servizi orizzontali, che spesso svolgono il peculiare ruolo di “porte di ingresso al web”. In particolare, Google rimane stabile al primo posto, raggiungendo ben il 95% degli utenti attivi in Italia, seguito da Facebook, visitato dall’83% degli utenti attivi e Microsoft (75%).”.

Il concetto di Servizio pubblico, rispetto alle filosofie tardo-marxiste del Novecento che presupponevano la “primazia” della politica, oggi si deve estendere a due presupposti: la funzione di operatore universale, tecnologico e produttivo; la proprietà e di conseguenza la governance. Quest’ultima non può più essere relegata al controllo finanziario e gestionale della politica, partiti di maggioranza e opposizione, governo e/o Parlamento, e alla loro ingordigia famelica; ma va basata sulla proprietà diffusa, tipico della “public company” e al ruolo di garanzia e indirizzo di una Fondazione sulla falsariga del “modello renano”, come il “Consiglio di sorveglianza” tedesco.


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