“Quando nel 1991 Saddam ci ha costretto a fuggire, noi curdi siamo saliti verso Nord. Ricordo tutto di quei giorni. Eravamo in migliaia. Arrivati al confine con la Turchia vediamo gente che ci aspetta con il pane. Noi eravamo affamati. Era sei giorni che non toccavamo cibo. Mio padre proibì di accettarlo, noi non capivamo, eravamo affamati A distanza di giorni non hai idea di quanta gente si è ammalata o è morta. Quel pane era contaminato, avvelenato. Non c’è una notte che non mi tornano in mente quelle immagini. Noi di UPP facciamo supporto psicologico ai rifugiati, ma so che certe ferite, certi ricordi, non si spazzano via”. La storia di Herman è drammatica ed emblematica allo stesso tempo. Era solo un ragazzino, oggi ha trent’anni ma non smette mai di pensare a quanto ha vissuto.
“Saddam ha fatto uccidere undici persone della mia famiglia. Un giorno hanno bussato alla porta di casa nostra. Erano soldati. Chiedevano a mio padre se fosse interessato ad avere il corpo del fratello, mio zio. Lui non poté che rispondere di sì, era suo fratello, lo voleva seppellire degnamente. Fu costretto a pagare il prezzo delle tre pallottole che usarono per giustiziarlo. E mio padre pagò”.
Non è mai facile farsi raccontare certe storie perché chi ha la forza per farlo è costretto a rivivere certi momenti. E’ così anche per Herman. Lui ora lavora con UPP (Un Ponte Per) anche se in passato è stato impiegato anche per un’importante compagnia petrolifera. Non per molto tempo perché la cosa gli creava disturbo. “E’ possibile – afferma Herman – che il Paese sia così ricco e la sua gente così povera? Non ce la facevo proprio a lavorare per quelli lì”.
E’ un controsenso difficile da spiegare, in effetti. La storia della sua famiglia è la storia di tante che come la sua hanno dovuto affrontare improbe difficoltà e ripartire da zero in diverse occasioni. “Prima c’è stato Saddam Hussein – prosegue Herman – poi le guerre del Golfo, ora Isis e le varie divisioni interne. Non c’è mai pace, per noi curdi.”
Non si riesce a fermare Herman, un fiume in piena.
“Ti pare possibile che io possa rimpiangere Saddam? Eppure oggi c’è un Saddam a ogni angolo di strada, la vita non ha valore, non si può andare avanti così. Per questo molti sognano di fuggire, di andare negli USA o in Europa, perché così non è vita. Certo io oggi ho un lavoro, la mia famiglia ha di che mangiare e una casa ma siamo sicuri che questo durerà? Ricominciare daccapo; io ho vissuto per ben tre volte questa situazione, significa non avere davvero nulla a parte la T-shirt che s’indossa e pochi spiccioli in tasca. Non credo che avrei la forza di ricominciare da zero, ancora una volta”.
In Iraq ci sono circa tre milioni di profughi interni, gente che ha dovuto spostarsi da una parte all’altra del Paese per scampare alle barbarie e alla morte. Ci sono campi profughi come quello di Domiz oramai diventati vere e proprie città. Non è inusuale poi incontrarne di “informali” lungo qualsiasi arteria stradale, che ci si diriga a Nord verso Zouk, che si vada verso sud partendo da Dohuk o che ci si direzioni verso Semelka, al confine con la Siria. Luoghi dove la gente cerca rifugi di fortuna nella speranza di essere accolti nelle strutture ufficiali dove certo sono ben organizzati ma con la consapevolezza che da lì non si andrà più via. A poca distanza da Mosul se ne sta attrezzando uno enorme, consci del fatto che tra poco, non si sa bene quando, accoglieranno migliaia e migliaia di persone.