L’appello “Io sto con Trocchia”, promosso in queste ore sul sito Change.org dai giornalisti Giovanni Tizian, Manuele Bonaccorsi, Luca Ferrari e Giorgio Mottola, chiede con forza al Prefetto di Napoli la giusta tutela che spetta a Nello Trocchia, scrittore e giornalista che collabora con Il Fatto Quotidiano. Sono passati ben due mesi da quando si è avuta notizia della minaccia a lui rivolta da un boss della camorra. “A quel giornalista gli spacco il cranio”, così si legge nell’intercettazione cui non ha ancora fatto seguito nessuna misura di tutela. Articolo21, comunica il Portavoce Giuseppe Giulietti, dà la sua adesione all’appello firmato tra gli altri da Roberto Saviano, Milena Gabanelli, Riccardo Iacona, Peter Gomez, Lirio Abbate. Urge un’azione concreta da parte delle Istituzioni nei confronti di un giornalista per nulla intimidito e anzi determinato a continuare il suo mestiere di cronista. Nonostante le minacce e le querele temerarie.
Partiamo da dove tutto è cominciato: gli articoli cui ha fatto seguito la minaccia nei tuoi confronti
Ho scelto di non specificare da quali articoli sia scaturita quella frase, così come di non indicare il nome del boss che l’ha pronunciata. Ho svolto alcune indagini giornalistiche e un’inchiesta in particolare, che svelava un sistema societario e affaristico il quale ruotava intorno ad un soggetto che da anni non era più attenzionato dalle forze dell’ordine. Dall’inchiesta si è attivata un’indagine cui è seguito l’arresto di questa persona e la condanna per 416bis della stessa. Il risentimento nei miei confronti era già emerso un paio di anni fa, fino a quando i Carabinieri hanno deciso di inviare con urgenza un’informativa alla Procura della Repubblica di Napoli poiché il fratello del boss dice di voler “spaccare il cranio” al giornalista riconosciuto nella mia persona.
Come ti sei sentito dopo aver saputo della minaccia?
Il pensiero è stato questo: ho fatto semplicemente il mio dovere di giornalista. Scrivere notizie, svolgere inchieste, fare domande. Ho sentito subito la necessità di far sì che questa vicenda divenisse l’occasione per far emergere quanto subiscono ogni giorno i cronisti a livello territoriale. Minacciati e abbandonati troppo spesso; minacciati non solo da intimidazioni ma anche da querele temerarie. Il mio caso, che sicuramente mi preoccupa, deve far ragionare su questo ma anche sull’importanza di una risposta da parte delle Istituzioni e dell’opinione pubblica rispetto a queste vicende.
Cosa ti aspettavi sarebbe successo dopo la notizia della minaccia?
Non mi aspetto nulla: ciascuno fa il suo lavoro e ciascuno decide in autonomia. Oggi [3 agosto 2015 ndr], di fronte all’appello che mi riguarda io rilevo semplicemente un fatto: a distanza di quasi due mesi non ho ricevuto, da parte degli apparati dello Stato, neanche una telefonata. Non mi piace né fare polemiche né lamentarmi. Il mio caso deve essere utile a far capire che c’è bisogno di un’attenzione maggiore rispetto a queste tematiche, che ripeto, tanti miei colleghi vivono. Ma non ho lamentazioni, né esigenze, né richieste da fare a chi che sia. Il tempo ci restituirà un dato credo non trascurabile: qual sia la capacità di reazione rispetto a fatti ritenuti minacce esplicite dai Carabinieri. Essendo io un cronista mi estraneo. E dall’esterno conto i giorni.
Cosa emerge dalla solidarietà dimostrata dai colleghi con questo appello?
L’appello rivolto alle autorità preposte è di una chiarezza unica: penso chieda a chi ne ha competenza e viene pagato per questo, di assumere una decisione. Emerge inoltre quanto il mestiere del giornalista sia complicato perché siamo continuamente attaccati; quanto sia condiviso il fatto che per un giornalista è difficile fare domande ed inchieste: in molti territori rischi o le querele temerarie o le minacce. Il dato è che la libertà di informazione è fortemente pregiudicata dalla presenza di potentati politici, imprenditoriali e criminali.
Cosa a tuo avviso, bisognerebbe fare per prima cosa per tutelare la libertà di informazione?
Innanzitutto in questo paese bisogna ricominciare a saper distinguere. Anche tra i “buoni”. Dopo la pubblicazione di La Peste fui querelato da un Magistrato definito da alcuni un paladino della lotta all’ecomafia. Oggi questo Magistrato è sotto processo mentre quanto raccontato nel libro è stato confermato da due pentiti in aula giudiziaria. Rispetto ai soggetti con la patente della legalità a volte non c’è un approccio critico e laico: questo è uno dei primi mali da affrontare perché spesso difendere la libertà di informazione dai buoni è ancora più difficile. Rispetto all’enorme problema delle querele temerarie sarebbe giusto che il soggetto querelante depositasse una cauzione o quantomeno che pagasse una parte del risarcimento chiesto se ha torto. Altrimenti chiedere migliaia di euro per inchieste giornalistiche ha un solo effetto: intimidire i cronisti locali e gli editori. Un altro tema centrale è che la precarizzazione ha aumentato i livelli di rischio, la facilità di intimidire e di zittire. Un auspicio: chi invece è tutelato si impegni nel proprio lavoro facendo anche domande scomode.
Nonostante le querele temerarie e le minacce continui a fare il tuo lavoro.
Sì e non c’è nulla di eroico. Continuo a fare il giornalista, conosco i rischi a cui si va incontro e lo faccio come tanti che semmai vivono i territori più di me e hanno difficoltà maggiori. Cancellare la parola eroismo insieme alla parola delega è l’unico modo per restituire l’idea che, nel proprio lavoro quotidiano, si gioca la partita più importante contro il malaffare.