In un mondo unificato dai mezzi di informazione ogni tentativo di comprimere, di proibire, di dissuadere si risolve inesorabilmente in un rialzo della temperatura sociale, in una implementazione della conflittualità, ma anche in una crescita della domanda di democrazia.
Il dibattito da Articolo21 su “Migranti e Informazione” rilancia questi temi offrendo termini di confronto significativo per il recupero di valore e di senso del giornalismo, professione in difficoltà e in crisi di identità.
Nel mondo delle notizie che corrono a grande velocità nella rete della comunicazione globale, ogni giornalista deve avere ben chiaro che svolge una funzione di grande responsabilità anche morale, posto che l’informazione assume sempre più una grande importanza per lo sviluppo della personalità dei cittadini, dei singoli come delle comunità, e di conseguenza della vita democratica.
Il rispetto della dignità di ogni uomo deve guidare tutta l’attività professionale e allora una considerazione etica su questo suggerisce di non usare arbitrariamente notizie e opinioni ma di fare queste operazioni con chiarezza e rispetto. Le scelte di campo, se ci sono, debbono essere distintamente avvertibili. Non c’è bisogno di sul fuoco dei sentimenti o degli odi, ricorrendo a stereotipi finalizzati a sostenere quella o quella corrente di pensiero.
Mettere al centro i fatti, che contano, raccontando i fatti e le storie fornendo le informazioni e le chiavi di senso con il criterio della correttezza e dell’umanità è quanto di più prezioso possa essere fatto. E’ questo il dovere primario del giornalismo come lo intendiamo noi e cioè un’attività che distingue le democrazie dai regimi e si propone come servizio alla comunità, per comprendere i fatti complessi anche quando si è di fronte a un episodio apparentemente minori, per superare ingiustizie, per dare voce ai cittadini. E aggiungo per capire e far capire le differenze tra informazione e propaganda per separare le idee di un confronto civile e politico di valore dai cinismo dei comportamenti opportunistici e mercantili.
Valerio Cataldi, Giuseppe Giulietti, Roberto Reale pongono l’attenzione sul rapporto tra fonti, testo e contesto e così facendo ci spiegano come le esagerazioni, le faziosità precostituite, le descrizioni stereotipate su certi fenomeni che sono drammi globali nel nostro tempo, ingenerino, paure, odi, razzismo: dalle “invasioni” alle “ondate” e agli esodi dei migranti in fuga da fame e guerre, alle “epidemie” d’importazione.
Hanno ragione Reale e Cataldi, citati da Giulietti: c’è da porre alla professione giornalistica ma anche all’impresa dei media (intesa nel senso più ampio) la necessità di superare la “progressiva rottura del rapporto tra fatti e parole” per una rinnovata adesione a una linea di informazione rigorosa dove fatto e parole vanno insieme e danno vita alla formazione di libere opinioni. Le Carte non mancano: Carta dei doveri del Giornalista, Carta di Treviso (Minori), Carta dei diritti e dei doveri del giornalista Radiotelevisivo del servizio pubblico, Carta di Roma (per l’informazione sui rifugiati, richiedenti asilo, migranti e vittime della tratta). Forse si può anche pensare a un testo unificato perché diventi patrimonio diffuso della categoria dei giornalisti e sia proposto all’adesione delle imprese dei media, che debbono ricordare sempre la particolare natura dell’attività imprenditoriale nel campo, separando conflitti di interesse e contribuendo alla loro credibilità.
L’affermazione dei diritti di cittadinanza è stella polare per il giornalismo etico libero, in tutto il mondo. Su questi diritti – ripete incessantemente il nostro Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che sta segnando un magistero istituzionale in questo senso – si può e si deve fondare” il grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia”.
Davanti alle emergenze dei milioni di uomini, donne, bambini in fuga da guerre, persecuzioni e fame non si può che rispondere con l’esercizio dei doveri etici della professione, dalla severa proposizione dei fatti con documenti e parole fedeli e linguaggio rigoroso”. Non tutto è da buttare. Non partiamo da zero. Partiamo dalla cultura, dalla conoscenza e facciamo tesoro degli esempi.
Se penso al dramma dei migranti che sbarcano nel Sud del Paese, debbo sapere anche di quanti si rifugiano nei territori della stremata Grecia, dei problemi di quanti si riversano nei campi profughi del Kurdistan e del Libano (in misura addirittura pari agli abitanti propri): Dobbiamo poter contare su informazioni di contesto, fatti e letture dei fatti che riconnettano i fili di una storia umana che ci appartiene. Ecco allora il valore e la forza degli esempi, che sono giornalismo e informazione di valore universale a ogni latitudine, che aiuta far tesoro delle cose belle come di quelle brutte e che ha delle responsabilità pubbliche a cambiare che vanno cambiate. E chi vorrà perseverare negli errori per fanatismo o odio, lo farà sapendo che il suo confronto non sarà più sul ring dove combatte con chi la spara più grossa ma con un’opinione pubblica più consapevole. Penso per un momento alla nostra Rai. Dalla mia memoria recente emerge lo Speciale Tg1 (già anticipato su Rai5 a luglio) andato in onda 2 agosto scorso, con il film documento “La Nave Dolce”, che ci ha riproposto, con documenti originali e storie vere attualizzate, linguaggi e montaggio immagini rigoroso, la vicenda dei 20 mila albanesi partiti da Durazzo su un vecchio mercantile, che avevano preso d’assalto a Durazzo, sbarcato a Bari l’8 agosto di 24 anni fa: poi sette giorni infernali con quasi tutti i 20 mila chiusi in uno stadio della città tra caldo, fame e sete, in attesa di una bottiglia d’acqua e del cibo lanciato da elicotteri; la fuga di qualche migliaio, assistiti dalla popolazione come i superstiti di guerra in fuga; il rimpatrio di 17 mila dopo una settimana; la condizione di “clandestino” di alcune centinaia per qualche tempo; il rientro “legaletempo dopo, in Italia di una parte di 20 mila. Storie di prime scelte dell’Autorità che fanno pensare e ripensare, storie, di sofferenza e di tanta dignità dei “semplici” e dei forti, degli “uni” e degli “altri”. Chiunque sa dove e come e perché collocare il “noi” se ha visto quello “Speciale”. Peccato per l’orario della messa in onda, a cavalo della mezzanotte. C’è un’intera generazione che non sa, che non era nata allora e che oggi è maggiorenne e sarà sempre più protagonista delle scelte del Paese. E ci sono milioni di italiani che avevano dimenticato o rimosso e magari oggi sono indotti a commentare il dramma delle migrazioni di oggi utilizzando le parole d’ordine dei protagonisti della lotta politica o i titoli ad effetto di media omologati a questa o quella corrente di giudizio.
Servizi come questo, invece, parlano alla nostra comunità più di tante risse politiche, televisive o meno. Giornalismo e servizio pubblico hanno canali e opportunità per un’offerta generalista che sia percepibile come risorsa, offrendo scelte diverse e di alto profilo in ogni fascia oraria. Anche così si aggiorna e qualifica il valore di una professione, quella giornalistica, pilastro delle democrazie e di un servizio pubblici degno. Ripartiamo dalla cultura della conoscenza e dell’esempio. Mi risulta che le organizzazioni dei giornalisti, anche a livello europeo e mondiale, siano tenacemente impegnate su questa strada, Troppo spesso in solitudine, anche per troppi “ismi” intesi come particolarismi, localismi, egoismi.
Amo ricordare sin da giovanissimo – da quando ancora non era crollato il muro di Berlino (lo dico con riferimento anche agli altri intervenuti sin qui nel dibattito, come Verna e Di Trapani) – che il giornalismo deve costruire continuamente ponti non muri. Lo dicevo parlando con i colleghi delle due aree quando erano ancora divise dal quel muro, lo dicevo incontrando i colleghi palestinesi e israeliani negli ultimi dieci anni. Ce lo siamo detti con i giornalisti russi ucraini, che vivono la lacerazione della guerra tra i loro Paesi. L’ho detto di recente a Baghdad. Non cambio parere oggi.