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Migranti: come si illumina una strage?

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Una barca di legno si capovolge a poche miglia dalla costa libica. Dicono sia colpa del fatto che a bordo si sono spostati tutti insieme per avvicinarsi alla nave militare irlandese che gli andava incontro. Dicono che succede sempre così, ma non è sempre vero. È la ricostruzione che inizialmente avevano dato per il naufragio più terribile, quello dei settecento o forse novecento morti dell’aprile scorso. Ma poi i superstiti hanno detto che c’era stato un impatto con il cargo che li stava soccorrendo. Forse una manovra sbagliata dello scafista, ma non lo sapremo mai perché dalla scatola nera del cargo sono stati cancellati i dati di quel giorno. Non sapremo mai neanche se erano settecento o novecento le vittime. Certamente mai sapremo i nomi di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, sepolti in fondo al mare. Non sapremo mai neanche quanti sono i morti di questa ultima, ennesima strage. I numeri sono spesso spaventosi, ma sono numeri calcolati approssimativamente, certamente per difetto. Duemila morti dall’inizio dell’anno, ora forse duemila duecento o duemila trecento. Quanti sono effettivamente?

Nelle redazioni c’è sempre l’ attesa del bilancio di fronte alle tragedie alle catastrofi. I numeri determinano la quantità di spazio che giornali e telegiornali concedono al racconto. Per i naufragi succede sempre e l’esitazione in questo ultimo caso, è durata davvero a lungo. Fin dall’inizio il bilancio diceva 25 corpi recuperati, 400 salvi, incerti i dispersi forse 300, forse 100, forse di meno, forse di più. Troppo pochi? È strage? È tragedia?

I numeri. Sono sempre i numeri a dosare il livello di emozione quando si parla di migrazione e di morte. Il giorno prima di questa ennesima strage, i conti dell’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, dicevano che i morti annegati nel mare mediterraneo sono duemila solo nei primi sei mesi dell’anno.

Significa dodici al giorno, uno ogni due ore, un morto ogni 120 minuti. Significa che una donna o un uomo o un bambino annega ogni 120 minuti. Forse così fa più effetto, forse cambiando le parole e il modo di raccontare la morte si ottiene una attenzione diversa, si ottiene un grado di indignazione sufficiente per pretendere attenzione dai paesi europei che si accorgono del “problema” solo quando diventa visibile, o che si illudono di riuscire a fermare i flussi dichiarando una guerra impossibile a scafisti e trafficanti di uomini. Dividendo i morti per i rintocchi dell’orologio che segna anche il nostro tempo, si può superare l’egoismo di chi non vuole accogliere chi sopravvive prima a fame, guerra e dittatura e poi alle traversate del deserto e del mediterraneo? Forse cambiando le parole ed il modo di raccontare la morte si riesce ad ottenere un racconto che sia costante analisi di cosa sta succedendo, del perché.

I numeri possono essere usati per affermare l’esistenza di una invasione: sono duecentomila quelli arrivati finora, saranno di più a fine anno. Oppure possono dire l’esatto opposto: duecentomila persone arrivano su un territorio di 28 stati, quasi 4 milioni di miglia quadrate, una popolazione di oltre 742 milioni. Ce la può fare un ricco continente di queste dimensioni a sostenere l’arrivo di 200 mila o anche 400 mila persone in un anno? Dovremmo provare a chiedere al Libano come si fa, o alla Giordania, o alla Turchia che hanno accolto sette milioni di persone in fuga. Dovrebbero chiedere loro consiglio la Francia e l’Inghilterra che pretendono solidarietà e aiuti economici per riuscire a fermare cinquemila rifugiati che cercano disperatamente di passare un confine blindato.

I numeri aiutano a capire meglio se parlano di soldi, anzi di economia. Se raccontano che in Italia l’8,8% della ricchezza nazionale, per una cifra complessiva di oltre 123 miliardi di euro è prodotta dal lavoro di 2 milioni e 400 mila stranieri (dati Fondazione Leone Moressa). Aiutano invece a seminare intolleranza e a far crescere razzismo se raccontano la menzogna dei 40 euro al giorno dati ad ogni migrante sono 2,5 euro al giorno).

Le parole cambiano radicalmente il senso delle cose, così come le immagini. Vedere il team di Msf che senza inutili tute anticontaminazione da il benvenuto con un sorriso e una stretta di mano ai naufraghi che soccorre in mare ci aiuta a capire che noi che siamo a terra, non corriamo nessun pericolo. Medici senza frontiere è la sola Ong che da maggio è in mare con tre navi per la ricerca e soccorso dei migranti. Un sostegno importante al dispositivo messo in moto dall’Italia e ora sostenuto timidamente dall’Europa che ha deciso di concentrare lo sforzo sugli scafisti, i trafficanti che si arricchiscono, ma che sono solo uno strumento per un flusso di persone in fuga che troverebbe comunque una strada per arrivare in Europa. Sempre più spesso sono le loro navi a portare i morti e i vivi nei porti siciliani.

Gli ultimi appena due giorni prima dell’ultimo naufragio: quattro donne e un uomo, morti di disidratazione, morti sotto il sole, morti di sete su quel gommone di cartone come tutti gli altri che salpano dalle coste della Libia verso l’Europa.

Cinque morti, quattro donne e un uomo. Come si fa a raccontarli perché facciano notizia, perché suscitino la reazione della parte ricca del pianeta? Tanto tempo fa un amico poliziotto mi ha insegnato che oltre i tre morti è strage, una regola che forse vale nei tribunali ma nel mediterraneo non sembra essere sufficiente. Ci vogliono centinaia di morti per ottenere un effetto. Il 3 ottobre 2013 i 368 morti annegati di fronte Lampedusa si sono lasciati guardare e questo ha fatto la differenza. L’interesse è stato planetario e ha dato il via alla più grande operazione di ricerca e soccorso mai vista chiamata Mare nostrum. Sono passati quasi due anni. In fondo al mare oggi c’è ancora il peschereccio affondato lo scorso aprile. La marina militare aveva iniziato a recuperare quello che resta dei corpi, settecento o forse novecento corpi come hanno raccontato i pochi superstiti. La strage più grande nello stillicidio di stragi che si ripetono nel mare mediterraneo e che negli ultimi dieci anni hanno fatto ventimila morti, un numero calcolato per difetto che fa duemila morti l’anno, centosessantasei al mese, cinque e mezzo al giorno.


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