Stavolta i messicani hanno reagito con forza alla strage dei narcos che da almeno dieci anni insanguina il Paese, scendendo in piazza a migliaia per onorare l’ultima vittima della connessione ormai evidente con il potere politico. Aveva solo trent’anni, si chiamava Ruben Espinosa e lavorava come fotoreporter per il giornale investigativo “Proceso”. E’ stato ritrovato ucciso a Veracruz insieme a quattro giovani donne della società civile: tutti torturati, violentati e poi giustiziati con un colpo in testa. Espinosa era stato più volte minacciato da Javier Duarte, governatore dello Stato più pericoloso del Messico: undici giornalisti assassinati negli ultimi anni, sei solo quest’anno. L’ultimo un mese fa: Juan Mendoza Delgado, direttore del sito “Escribiendo” in prima fila per denunciare la corruzione e il rapporto perverso fra i cartelli della droga e le autorità locali che dal 2000 ad oggi ha provocato più di centomila morti, almeno cento tra i reporter, dodici solo a Veracruz, oltre ai venti scomparsi, per non parlare degli esiliati, cioè di chi è dovuto scappare. Paradossale l’ipotesi di reato al centro dell’inchiesta della magistratura per l’ultima carneficina: furto. Solo perché a casa del fotoreporter sono stati rubati molti documenti, senza considerare che erano le prove dei misfatti. Anche stavolta dunque si profila l’impunità del delitto.
L’opinione pubblica è sconcertata (ed impaurita). Specie dopo il sacrificio l’anno scorso della giovane Rosario Rubio. Medico e blogger collaborava con il sito di notizie “Responsabilidad por Tamaulipas”. Sequestrata al confine con gli Stati Uniti è stata a lungo torturata e poi uccisa. Il suo account twitter, dove si firmava Melina, è stato violato ed è comparsa una foto del cadavere con una didascalia preoccupante: “La mia vita oggi è arrivata alla fine. Non fate gli errori che ho fatto io”. Anche i social network servono ormai per diffondere terrore.
“La violenza è il linguaggio dello Stato” hanno scritto su un cartello durante la grande manifestazione popolare indetta per i funerali di Espinosa, una sua frase ricorrente. Una guerra che ha prodotto più morti che in Afghanistan e in Iraq e che pone il Messico fra i Paesi in assoluto più pericolosi per l’informazione. Vittima della censura più implacabile e crudele, quella prodotta dal piombo.