Un anno di lavori, audizioni, dibattito, cominciati il 18 luglio 2014, per arrivare in questi giorni alla relazione finale su “mafia, giornalisti e mondo dell’informazione”. A definirla è stata la commissione bicamerale d’inchiesta sulle mafie , che ha accolto le conclusioni cui è giunto l’VIII comitato della commissione presieduto dal vice presidente dell’organismo bicamerale on. Claudio Fava.
Trentaquattro audizioni – gli unici a non accettare l’invito del comitato ad essere sentito sono stati lo scrittore Roberto Saviano e l’editore e direttore de La Sicilia , Mario Ciancio – la cui sintesi finale è lapidariamente inequivocabile: la libertà di stampa, già malmessa come testimonia l’ultima classifica mondiale di “Reporter senza frontiere”, l’Italia è ulteriormente scivolta di 24 posizioni ed è al 73° posto, diventa sempre meno libera se c’è da raccontare le mafie.
“Il primo dato allarmante che ci consegna il lavoro del Comitato – sottolinea l’on. Claudio Fava – è, da un lato, l’incremento degli atti di ostilità nei confronti dei giornalisti (2060 dal 2006 al 31 ottobre 2014, con un costante incremento che ha registrato il suo picco nei primi dieci mesi del 2014, 421 atti di violenza o di intimidazione, quasi tre ogni due giorni). Dall’altro, l’impunità di quegli atti pochissimi gli episodi in cui gli autori di minacce o violenze siano stati identificati, giudicati e condannati“. Violenze che hanno volti diversi, non solo intimidazioni, attentati e progetti di attentati, minacce, ma c’è anche “il ricorso sempre più frequente – accanto a metodi più diretti e più tradizionali – a un uso spregiudicato e intimidatorio di alcuni strumenti del diritto. Parliamo delle querele temerarie e di azioni civili per danni altrettanto temerarie: dove la temerarietà è solo apparente, visto che in questi casi l’obiettivo dell’azione giudiziaria contro il giornalista non tanto è quello di dimostrare le proprie ragioni quanto quello di indurre quel giornalista a comportamenti e scritture più “rispettosi”.
E ancora: “C’è poi una violenza più subdola, ma non meno dolente, che si manifesta attraverso le condizioni di estrema precarietà contrattuale ed economica di quasi tutti i giornalisti minacciati. Molti cronisti auditi, a fronte di un devastante repertorio di intimidazioni (pallottole per posta, auto bruciate, minacce verbali, avvertimenti più o meno felpati), hanno ammesso di dover lavorare per pochi euro ad articolo, spesso senza contratti e con editori raramente disponibili ad andar oltre una solidarietà di penna e di facciata“. Inoltre, aggiunge ancora l’on. Claudio Fava, “abbiamo rilevato nei confronti dell’informazione libera, una diffusione di episodi di aggressività non sempre riferibili alle organizzazioni criminali mafiose. Difficile, in questi casi, capire quale sia la linea di confine tra minacce malavitose in senso stretto e semplici atti di intolleranza di poteri e potenti che mal sopportano una stampa non allineata. Non di rado gli uni si fanno scudo attraverso gli altri, come testimoniano alcuni episodi ricostruiti soprattutto in Sicilia e in Calabria“. Dinanzi a questo scenario è facilmente deducibile che al cittadino viene negato un diritto costituzionalmente garantito, cioè l’essere informato, conoscere ciò che accade, si calpesta l’articolo 21 della Costituzione in nome di un unico fine, far conoscere ciò che non fa danno alle mafie e ai complici delle mafie.
“Le conseguenze si riflettono anche sulla qualità dell’informazione, che spesso ne risente. Il lavoro del Comitato è stato chiamato a indagare anche l’altro aspetto del problema: l’informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie. Perché se è vero che gli episodi di compiacenza a volte sono il prodotto delle minacce subite, è pur vero che esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela. Molte testimonianze raccolte raccontano di un clima difficile in alcune redazioni, di giornalisti isolati, allontanati o persino licenziati anche quando queste decisioni li ponevano oggettivamente in una condizione di maggior rischio. Significativa, sia pur lontana nel tempo, la ricostruzione dell’omicidio Francese, degli ultimi suoi mesi di lavoro al Giornale di Sicilia e del modo in cui l’informazione su Cosa Nostra – in quegli anni – abbia finito per provocare lacerazioni profonde nella redazione di quel giornale. Preoccupanti gli elementi raccolti anche sull’altro grande quotidiano dell’isola, La Sicilia, e sui tratti di opacità che hanno segnato l’informazione sulla mafia catanese. Come grave risulta – per ciò che documentiamo – la richiesta di rinvio a giudizio del suo editore Mario Ciancio per concorso esterno in associazione mafiosa. Grave soprattutto per una terra, la Sicilia, che ha già contato otto giornalisti uccisi da Cosa Nostra“.
Nonostante in Italia l’auspicata legge sul bavaglio auspicata da un movimento politico trasversale, accade però che il bavaglio già funziona e funziona anche perchè ci sono giornalisti che lo hanno accettato, c’è chi ha concordato un prezzo per mettersi il bavaglio: “E’ l’altra faccia della medaglia – dice Fava – che questa Relazione ha voluto approfondire: accanto a un numero sempre crescente di giornalisti minacciati, aggrediti, offesi, sopravvivono alcune sacche di informazione reticente. Di editori attenti a pretendere il silenzio delle loro redazioni su fatti o nomi innominabili. E di direttori che si prestano a sorvegliare, condizionare e redarguire quelle redazioni. Casi poco numerosi, per fortuna, ma non del tutto isolati. Su cui l’Ordine dei giornalisti ha ormai abdicato a esercitare una funzione di fattivo controllo, avendola dovuto delegare per legge ai cd. Consigli di disciplina. Che fino ad oggi – nei dati che ci sono stati messi a disposizione – hanno funzionato poco o nulla”. In un panorama negativo, il comitato attraverso le audizioni, ha tratto anche elementi positivi, “la determinazione con cui una nuova generazione di giornalisti ritiene che la funzione etica del loro mestiere non possa essere svilita da condizioni di lavoro a volte umilianti né dai rischi, dalle minacce, dall’isolamento. Sono giornalisti poco conosciuti, schivi, generosi, determinati. Raramente li incontreremo sulle ribalte mediatiche, ma leggeremo o ascolteremo spesso i loro racconti sul sistema di potere mafioso, sui suoi innominabili amici, sui suoi oscuri mallevadori. Degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo in Italia, questa silenziosa e tenace comunità di giovani cronisti è l’eredità più autentica. E la Relazione ne dà opportunamente conto”.
La relazione finale contiene quello che è da considerarsi il testamento del presidente nazionale della Fnsi, Santo Della Volpe, prematuramente scomparso il mese scorso. E’ stato il presidente della Fnsi Della Volpe a sciorinare i numeri che segnano il disgregarsi nel nostro Paese della libertà di informazione, dati forniti da Reporters sans frontières sull’Italia: “129 cause di diffamazione ingiustificate contro giornalisti nei primi dieci mesi del 2014, mentre nel 2013 il dato si era fermato a 84. Questo però è soltanto un dato parziale, perché nell’intero 2014 sono state conteggiate (da Reporters sans Frontières) 421 minacce ai giornalisti, con un aumento del dieci per cento rispetto al 2013”. Della Volpe ha fatto toccare con mano come spesso gli organi deputati a controllare, Ordine dei Giornalisti, sindacato, dinanzi ad alcuni accadimenti girano la faccia dall’altra parte: “Noi facciamo bene a fare le battaglie per i diritti, però dovremmo ricordarci che abbiamo anche molti doveri. […] Questi doveri vengono spesso dimenticati, spesso non vengono perseguite le violazioni dei codici deontologici, non mi vergogno a dirlo, anzi personalmente sono molto attratto dalla cultura anglosassone dove ci sono meno regole scritte, però ci sono delle prassi di comportamento chiare. In Inghilterra o in America il giornalista o un altro professionista che sbaglia, se commette un errore grave, deve cambiare mestiere. In Italia questo non funziona”.
Ad un mese dalla sua morte che tanti ha addolorato, le parole di Santo Della Volpe riferite dinanzi al comitato e riprese dalla relazione hanno trovato ulteriori riscontri. I vertici della Fnsi, è stato sentito anche il segretario Raffaele Lorusso, hanno sottolineato l’uso “criminoso” delle querele temerarie, “è questa.un’altra forma di intimidazione – ha detto Lorusso – che, sia pure meno violenta di quella perpetrata con aggressioni fisiche o con minacce, è altrettanto limitativa e intimidatoria. È diventato quasi una moda cercare di colpire o quantomeno di fermare giornalisti e cronisti ritenuti scomodi, preannunciando o avviando azioni di risarcimento danni fondate sul nulla. Il solo annuncio di un’azione di questo tipo in cui spesso viene richiesto un risarcimento danni milionario, quando tale azione viene rivolta nei confronti di giornalisti freelance – che non hanno un editore o sono giornalisti precari o sono giornalisti che lavorano per giornali molto piccoli che quindi devono barcamenarsi ogni giorno per essere presenti in edicola – diventa una forma di limitazione della libertà di stampa”. Su questo punto Della Volpe ha aggiunto: “Se non sono libero di scrivere e di dare notizia di un fatto perché temo una querela da 200.000 euro che mi può mettere sotto sequestro la casa lasciando moglie e figli per strada, è evidente che l’autonomia professionale viene colpita. […] Noi offriamo alle persone che non hanno il giornale alle spalle la tutela gratuita dal punto di vista legale, perché questo serve per dire che possono scrivere perché comunque abbiamo i migliori avvocati d’Italia che li possono coprire in sede giudiziaria. Lo facciamo con lo sportello antiquerele che è intitolato al compianto Roberto Morrione perché fu una delle sue prime idee”.
Lorusso ha insistito su un possibile rimedio normativo: “Introdurre nel nostro ordinamento un principio, più volte sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui chi si rende colpevole di un’azione temeraria non va soltanto condannato al pagamento delle spese giudiziarie, come avviene oggi, ma va anche condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria proporzionale al risarcimento richiesto”. Un concetto chiaro è stato consegnato dalla Fnsi alla Commissione, e ha riguardato il pluralismo: “Oggi, in Italia abbiamo poco meno di 600 emittenti radiotelevisive locali, a fronte delle quaranta della Germania o delle trenta dell’Inghilterra e della Francia, e non mi pare che in Inghilterra, in Francia e in Germania ci siano problemi di pluralismo. Il pluralismo non è un problema di quantità: il pluralismo è un problema di qualità dell’informazione”.
Un panorama che dovrebbe indignare il Paese che rivendica ogni giorno di possedere una “solida e civilissima tradizione di informazione democratica”, ma pochi si indignano dinanzi ad un dato evidente che dovrebbe suscitare ancora di più indignazione perchè è provato che si vuole colpire i giornalisti che ogni giorno “raccontano un sistema di poteri, non solo mafiosi, che continuano a considerare come un intollerabile fastidio ogni voce libera, ogni cronista con la schiena dritta, ogni racconto – su quei poteri e sulle loro miserie – che non si pieghi all’adulazione o alla menzogna“.