La Rai, nel bene e nel male, è sempre un indice e un sintomo della vicenda politica italiana. Le ultime nomine dei vertici hanno dimostrato –con l’eccezione di Carlo Freccero- che la lottizzazione continua, essendo la cifra identitaria di un’azienda mai liberatasi dai vincoli esterni. E, per di più, la fisionomia del vertice è stata disegnata sulla base della vecchia e logora legge Gasparri del 2004, tuttora in vigore, pur essendo la traduzione normativa del predominio berlusconiano. Era lecito attendersi qualche novità dal governo “rottamatore”.
O bastano Antonio Campo Dall’Orto e Monica Maggioni? Torniamo al disegno di legge. E’ stata confezionata una proposta che ci riporta indietro di quarant’anni. La (contro)riforma del governo (ddl n.1880) dimostra che vi è un’assoluta mancanza di strategia. Nonché di una visione. Purtroppo, infatti, il testo si limita ad intervenire sul meccanismo dei poteri, senza assegnare alcuna missione definita all’azienda. Come è stato sottolineato nello stesso dibattito parlamentare, fermo alla prima lettura, nonché in grande parte dei commenti, lo spostamento del baricentro dal parlamento all’esecutivo è sbagliato e pericoloso. E pesano conclamati vizi di incostituzionalità, come ha messo in luce tra gli altri –nel corso dell’audizione presso la commissione parlamentare di vigilanza- Enzo Cheli. Il cuore dell’articolato ruota attorno all’introduzione della figura dell’amministratore delegato, dotato di funzioni assai superiori a quelle del tradizionale direttore generale. Una sorta di capo-azienda, fiduciario di palazzo Chigi. Tra l’altro, un emendamento del governo inserito all’ultimo minuto nell’aula del Senato garantisce al direttore generale di assumere le sembianze (nonché i poteri) dell’amministratore delegato, per chiudere il cerchio. Il consiglio di amministrazione (oggi di nove componenti, domani di sette) diviene un corollario. Anzi. Il “sottotesto” del testo risulta chiaro.
La Rai perde via via il carattere di un servizio pubblico ed è ridotta a mera azienda governativa. Probabilmente di metà classifica, visto che nei posti di testa stanno ormai Sky, Mediaset e new entry come Telecom-Netflix, per non dire gli OTT (Over the top), da Google ad Amazon. La prova provata è l’assenza di qualsiasi istruttoria adeguata, quanto meno per definire la nuova carta geografica del ruolo pubblico, in verità attualissimo. In misura persino maggiore di ieri. L’era digitale ha bisogno di un intelligente intervento dello stato, né assistenziale, né confinato ad una sorta di “libro-cuore” imperniato sul maestro Manzi. Lo stato-innovatore, nei termini moderni con cui ne ha scritto Mariana Mazzucato, è uno strumento essenziale. Dopo l’era pan-televisiva a baricentro berlusconiano, serve ora un’intelligente transizione verso le diverse piattaforme tecnologiche (onde hertziane, cavo, satellite), garantendo a tutti, senza discriminazioni, l’accesso free e la banda larga. Il compito del servizio pubblico passa da tale frontiera “a nordovest”, dove si giocano presente e futuro della cittadinanza digitale. Il rischio da evitare è il “divario televisivo”: il solco tra chi è in grado di entrare nell’universo crossmediale e chi si deve accontentare di una ripetitiva televisione generalista. Sarà un banco di prova per la democrazia italiana. Una sfida da non perdere.