La Rai è stata parte importante della modernizzazione del paese, della sua unificazione linguistica e del suo pluralismo culturale. Personalmente ritengo le ricostruzioni che tendono a rappresentare la storia di questa azienda solo sul versante del suo rapporto, spesso malato, con la politica e il potere, come parziali, facili, riduttive. Chiunque conosca la storia del paese, prima ancora di quella del servizio pubblico, non può non riconoscere che per un lungo periodo di tempo la Rai è stata la migliore televisione pubblica europea . Migliore anche della tante volte citata BBC. Fantasia, qualità,innovazione e anche autonomia politica strappata con i denti hanno consentito agli spettatori di avere prodotti di alto livello. Non è questa la sede per fissare le tappe di questo lungo cammino: basti solo ricordare la funzione della Rai – educare, informare , divertire nel lungo tempo del monopolio. Quando il paese faticava ad avere una lingua comune e livelli adeguati di istruzione i grandi sceneggiati televisivi riuscivano a catturare attenzione e passione di milioni di italiani. Fu la Rai a produrre , alla fine degli anni sessanta, dei brevi film di Bertolucci, Rossellini, Fellini che rimangono pietre miliari della storia del cinema italiano. E poi l’intrattenimento intelligente, i grandi quiz, il teatro nelle case, Jekyll di Albertazzi, l’informazione coraggiosa di TV7. E grandi affreschi storici come la Nascita di una dittatura di Sergio Zavoli. E la Rai, allora, era sotto il controllo del governo. Quando poi, per effetto di una sentenza della Corte Costituzionale, questa funzione passò al Parlamento si avvertì, nell’azienda e nel paese, una ventata di libertà. Furono lestagioni del Tg2 di Andrea Barbato,della trasmissione, addirittura sulla rete uno, delle udienze del processo di Catanzaro sulla strage di Piazza Fontana, dell’Altra Domenica di Arbore, di Televacca di Benigni, di Bontà loro di Costanzo, di Non stop con Verdone e Troisi, di Portobello di Tortora. E di mille altri programmi nuovi. E anche quando arrivò la giusta libertà di antenna e la ingiusta posizione di monopolio di un solo operatore, la Rai si diede una strategia forte: non accettò di seguire Canale 5 nel suo modello commerciale e culturale ma sfidò Mediaset innovando ancora il prodotto con programmi innovativi, cito MIxer o Blitz di Minoli, Linea Diretta di Biagi, il Tg3 di Curzi o Quelli della Notte ancora di Arbore, e scelse, con Rai Tre, di dare vita a uno dei più bei progetti culturali di questo Paese. Se la tv non fosse ancora considerata un genere minore dall’aristocrazia intellettuale, si dovrebbe collocare la stagione non breve del canale diretto da Guglielmi alla stregua delle esperienze migliori della produzione letteraria, cinematografica, artistica dell’Italia del dopoguerra. Guglielmi, intellettuale moderno, seppe scegliere una squadra di professionisti di primo livello, abolì le rigidità del palinsesto e dei generi e aprì la rete alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio.
Mai inseguendo modelli astratti o intellettualistici ma sempre puntando al pubblico, immaginando che l’identità culturale di una rete non fosse il singolo programma ma l’insieme del palinsesto, lo stile, il linguaggio formale. Convivevano così Il Processo del lunedì di Biscardi e Schegge, Chi l’ha visto, Blob e Telefono giallo. E poi Milano Italia, che raccontò la grande crisi del ’92, i programmi di Santoro, la Cartolina di Barbato, la irriverenza di Chiambretti, l’intelligenza giornalistica di Giuliano ferrara, La Tv delle ragazze della Dandini e Harem della Spaak. Un fuoco di artificio delle idde, ordinate in un progetto culturale e linguistico, Guglielmi era stato tra i fondatore del Gruppo 63, di cui erano parte organica persino le virgolette colorate sull’inquadratura in bianco e nero delle annunciatrici dei programmi. E poi, ancora in questi anni tantissimi programmi intelligenti e coraggiosi. Non li cito perchè sono in onda. Ma quello che ora manca è un grande progetto editoriale e culturale. Cosa significa fare servizio pubblico nel tempo di Internet? Cosa è passare dalla cultura dell’integrale, che ha formato generazioni abituate al grande racconto, a quella del frammento? Cosa significa interloquire con i nuovi lingiuaggi, quelli delle serie televisive e del Web, e con la dimensione orizzontale e non più verticale data dai social network? Cosa vuol dire conquistare ascolto con la struttura tradizionale dell’offerta dall’alto quando esistono, Sky e Netflix, piattaforme con migliaia di film e eventi che il fruitore può scegliere direttamente? Non è il tempo di potenziare analogamente il progetto Teche rendendolo un patrimonio disponibile al pubblico in rete o sul televisore? Non è il caso di chiedere al governo di rendere automatico l’introito derivante dal canone, sottraendolo così all’arbitrio del governo di turno, offrendo in cambio la possibilità di fare una rete senza pubblicità e liberando così risorse per l’intero sistema? E come sviluppare le immense potenzialità dell’azienda nella radiofonia?
Mi chiedo: la Rai ha deciso di rinunciare per sempre al pubblico giovanile difendendo come suo target esclusivo quelli che nelle sere d’estate si affollano, giustamente data la qualità, per vedere Techetechetè, grande programma ma rivolto esclusivamente agli over fifties?
Ancora: la Rai vuole rinunciare alla sua storia di innovazione creativa e linguistica limitandosi a moltiplicare stancamente il talk show politici in cui persone legate a ruoli di potere ripetono, da mane a sera, le stesse cose? O, persino peggio, il servizio pubblico vuole rinunciare alla vocazione che lo ha distinto, anche nei momenti più bui, rimuovendo la sua funzione di coscienza critica di osservatore attento e il più possibile indipendente delle cose del Paese? Ricordo con raccapriccio quando il trentatreenne Andreotti polemizzò con Vittorio De Sica, colpevole di aver girato Umberto D, dicendo: “Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D è l’Italia della metà del secolo ventesimo De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria” e più avanti Berlusconi attaccò la Piovra e Gomorra di Roberto Saviano responsabili di aver reso troppo nota una mafia che “è la sesta al mondo ma è quella più conosciuta per il film e le fiction che ne hanno parlato”.
La Rai, e in generale l’informazione, devono raccontare il paese com’è, senza pregiudizi ma neanche con la peggiore delle censure: l’autocensura.
L’azienda da tempo non ha un progetto editoriale frutto di un lavoro di ricerca e di confronto aperto con il paese. Aldo Grasso, sul Coriere della Sera, ha indicato alcuni temi sui quali i nuovi gruppi dirigenti sono chiamati a riflettere.
Io vorrei solo dire loro di non avere paura. Nè delle pressioni politiche, partitiche o dei governi, nè delle pure logiche del’Audience. Bisogna avere fiducia nell’intelligenza degli italiani. Più si porterà in basso la qualità più si dequalificherà la domanda. Non avere paura significa non sfornare a getto continuo, in modo affastellato, programmi che vengono chiusi al secondo share basso. Significa avere la forza di delineare un progetto di nuovi linguaggi, significa ripensare la concorrenza tra le reti, significa tagliare qualcosa e potenziare altro. Non la Tv “impegnata” ma quella “intelligente”, che è capace di portare questa virtù nello sport, dove la Rai è divenuta ancella, nell’intrattenimento, nell’offerta musicale, ormai inesistente. Il futuro della Tv non è nella iterazione dei generi più facili e nei programmi di cucina, con tutto il rispetto. Ci vuole ambizione culturale e modernità. Bisogna curare ogni prodotto e la sua scrittura come un fiore di serra. La RAi dovrebbe essere la factory nella quale crescono nuovi talenti della scrittura, capaci di sfuggire i luoghi comuni e gli stereotipi come sapeveano fare, in diversi contesti, Terzoli e Vaime o Antonello Falqui. La Rai deve diventare sempre di più il volano dell’industria culturale italiana, non pretendendo di fare da se, ma suscitando e orientando, anche qualitativamente, il grande fermento che c’è sul piano creativo tra autori e produttori di cinema e fiction: si pensi al successo, anche internazionale, delle serie di Montalbano, di quella di Gomorra o di “La grande famiglia” per capire che il nostro paese ha immense risorse e la Rai può utilizzarle al meglio, non spezzettando ma definendo un progetto ed una identità proprie. E poi scegliere i piu bravi, moderni, colti. Quelli che considerano arrivare a dirigere una rete o un tg, tra i lavori più belli immaginabili, non un punto di partenza per mirabolanti carriere ma un grande progetto al quale dedicare la propria vita professionale. Come è stato nei momenti migliori della storia di questa grande azienda. Della quale il Paese ha bisogno. In bocca al lupo al Presidente e al Direttore generale, che nella tv sono cresciuti. A tutti un consiglio che credo mi sia consentito dal fatto di avere, se non altro per ragioni familiari, quelle tre parole stampare nel cuore. Per avvicinarsi alla Rai non bisogna sapere solo la differenza tra pay tv e pay per view, nè solo quella tra audience e share. Bisogna sapere chi erano Giusi Raspani Dandolo e Henri Salvador, cosa hanno fatto in Rai Ugo Porcelli, Ciro Giorgini, Bruno Gambarotta, Pier Emilio Gennarini o Angelo Romanò, perchè “I figli di Medea” fu così importante, come Emilio Ravel e Brando Giordani rivoluzionarono il racconto dello spettacolo, chi erano Inardi e Marianini, a cosa fanno pensare Eleuterio e sempre tua e Dina Luce e Franco Moccagatta….
Insomma, come per lavorare alla Fiat bisogna sapere che ci sono state la Topolino e la Seicento, così per far bene alla Rai bisogna avere coscienza della sua storia. Che è, non lo si dimentichi mai, in primo luogo storia di prodotto. Ed è al prodotto che il servizio pubblico deve presto tornare, per avere un futuro.
P.S. Sarebbe un segno di novità se, a Novembre, la Rai, su una delle sue reti generaliste, dedicasse a Pier Paolo Pasolini, nel quarantesimo della morte, una giornata di programmazione. E se facesse vedere il suo film per me più bello “Salò o le 120 giornate di Sodoma” chiamando a commentare il film e a parlare di quei giorni orrendi, con la libertà che oggi si può e si deve avere, Claudio Pavone, Gianpaolo Pansa, Emilio Gentile e qualcuno dei ragazzi che andarono a Salò e che poi, perchè la vita è più complessa degli schemi, diventarono sinceri antifascisti.
Da L’Unità del 9/8/2015