Bannare i forsennati del cyber-razzismo, impedire la diffusione dell’odio, non è solo un atto di responsabilità civile. È, per chi fa il giornalista, l’adempimento della regole-base della professione, quella che impone ai giornalisti il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti.
Ritengo importante averlo ben chiaro. Perché introdurre questa considerazione tecnico-professionale nella battaglia contro l’hatespeech è la strada per estendere il fronte ben oltre l’ambito dei “giornalisti sensibili al problema”. In sostanza, si tratta di affermare che il bloccare i discorsi che incitano all’odio è un dovere professionale di tutti i giornalisti indipendentemente dal loro orizzonte politico e culturale. Dunque anche dei giornalisti che non hanno in alcuna simpatia gli immigrati e gli stranieri.
Mi spiego. Se un giornalista prova un grande dispetto nei confronti dei navigatori solitari che circumnavigano il pianeta attraversandone gli Oceani, può sostenere che i lunghi mesi di solitudine sono causa di stati depressivi, può anche dire che in una certa misura i navigatori solitari aumentano la diffusione degli ansiolitici perché i loro familiari sono sempre preoccupati. Ma non potrà mai affermare che i navigatori solitari sono degli impostori perché la terra è piatta.E se quello stesso giornalista che odia i navigatori solitari, raccogliesse una dichiarazione di questo genere da qualcuno che condivide le sue antipatie, non potrebbe limitarsi a registrarla come una “opinione”. Dovrebbe dirgli: “Caro mio, anche a me quelli là stanno sullo stomaco. Ma la Terra è rotonda. Il tuo non è un ‘punto di vista’, è una scemenza.”.
I discorsi d’odio si fondano su un presupposto falso: l’esistenza delle razze. Le singole locuzioni d’odio in cui questi discorsi si articolano non sono altro che la declinazione del discorso razzista. Si fondano, cioè, sulla negazione di un dato unanimemente riconosciuto dalla scienza. Il discorso razzista sostanzialmente nega la sfericità della Terra.
Per restituire la verità sostanziale di un fatto, devo essere certo che il mio lettore abbia un’idea precisa del luogo dove il fatto si è svolto. Ecco, nella regola delle 5 W, i giornalisti non devono mai dimenticare che il “where?” è sempre e comunque il Mondo. Questa ragione è da sola più che sufficiente per fare della lotta contro l’hatespeechuna battaglia di tutti i giornalisti che vogliono continuare a essere tali.
Il 2 luglio ci siamo riuniti a Firenze per un seminario internazionale che ha messo a confronto le pratiche di gestione dei discorsi d’odio nelle redazioni europee. Con noi c’erano la catalana Vilaweb e la romena Adevarul. C’era La Stampa che alcuni giorni fa, seguendo l’esempio della tedesca ARD, ha deciso di cancellare i commenti d’odio e di bannarne gli autori, invitando gli altri a isolarli. C’era l’EuropeanFederation of Journalists, che si poi è unita a noi nell’appoggiare questa iniziativa, come hanno fatto la belga RTBF e le organizzazioni di categoria dei giornalisti spagnoli e tedeschi, come ha fatto Articolo 21. E l’Usigrai, che vede nel contrasto all’hatespeech una nuova sfida per la Rai, affinché il Servizio pubblico svolga il ruolo fondamentale che gli compete nella riaffermazione di un’etica professionale forte.
Insieme diciamo #nohatespeech, invitiamo le redazioni italiane a riflettere sulla gestione dei discorsi d’odio. Siamo pronti al confronto.
* Presidente dell’Associazione Carta di Roma