Riflettere sulle parole per non avere paura. Conoscerne il significato, l’etimologia per provare ad invertire quello stato emotivo di turbamento e angoscia generato dal diverso: la paura appunto.
Bisognerebbe ripartire da qui, da un utilizzo appropriato del linguaggio per scardinare il nuovo odio razziale che cresce, giorno dopo giorno, alimentato ad arte dagli slogan e dalla propaganda politica e amplificato dalle inesattezze giornalistiche, spesso frutto di malafede, pressapochismo e incapacità. Superficialità non più accettabili che porteranno a quello scontro di civiltà già descritto da Samuel Huntington nel suo libro venti anni fa. È sempre più urgente un richiamo alla professione, alla deontologia, alle regole, tante, scritte con puntualità e troppo spesso eluse.
Le frasi di incitamento all’odio, le minacce di attacchi terroristici, le mancate risposte e proposte della politica hanno fatto emergere la futilità del giornalismo contemporaneo. La ricerca ossessiva di immagini travalica le storie e le testimonianze di chi, al di là di quel mare nostrum ormai carico di morti, ha lasciato una casa, una famiglia, una parte della vita. Come è possibile abituarsi all’arrivo di barconi fatiscenti carichi di “merce umana” stipata come sardine nelle stive? Come può l’Occidente accettare, ancora una volta, di confrontarsi con corpi nudi ammassati uno sull’altro come sacchi neri della spazzatura? Ha ragione Valerio Cataldi, inviato del Tg2, a sottolineare che basterebbe utilizzare “parole giuste” per non avere sindromi da “invasione che sono più uno stato d’animo che la realtà”. Verificare.
È la nostra regola principe: numeri, fonti, fatti circostanziati, testimonianze incrociate di chi è riuscito a superare torture e violenze. Solo i riscontri oggettivi possono cancellare un’informazione sempre più parziale, che fa i conti con la ricerca di audience o di vendita di copie, che racconta mezze verità sparate come assiomi. E come in un assillante tam tam ci lasciamo trascinare dalla corrente delle menzogne, da chi vorrebbe trasformarci in strumenti, in cassa di risonanza per le proprie tesi.
Restituire la dignità a queste donne e questi uomini disperati e coraggiosi, deve tornare ad essere una nostra priorità. Abbiamo un’unica arma a disposizione, un’arma tagliente ed affilata, che quando è ben utilizzata è capace di denunciare, far riflettere e cancellare le falsità: le parole, strumenti primari del nostro mestiere.