Uno di quei luoghi così salubri in cui portare i bambini asmatici a curarsi: il mare, il vento, il sole. Poco più in là, l’isola del centro storico, abbastanza vicina, sufficientemente lontana per preservare l’integrità della riserva naturale. Questo era l’area su cui sorge l’Ilva. Salubre, come poteva esserlo la Castellabate e il Cilento visti da Murat, tanto da strappargli quelle parole riprodotte nelle vie della città campana: “Qui non si muore”.
Ora, il mostro, quindici milioni di metri quadrati di acciaio nero, fumo e fiamme, i bambini li mangia. Dal 2003 al 2009, l’incidenza delle leucemie nei piccoli tarantini è stata il doppio rispetto al resto d’Italia. E per avere una misura del dramma, basti pensare che 4 neonati leucemici su dieci non arrivano al secondo anno di vita.
A Taranto, che guarda continuamente al di là dei suoi due mari quell’incubo grande due volte sé, la mortalità per malattie cancerose è complessivamente il 10% in più che nel resto del Paese, con punte spaventose dei tumori allo stomaco, al fegato, all’utero e al seno.
I lavori per la costruzione della grande acciaieria sono iniziati nel 1960, e si capì subito che questa ammazzava. Il cacioricotta prodotto nell’area e analizzato in quegli anni, faceva segnare livelli di diossina impressionanti. Avvelenato è il latte delle capre, avvelenato è il latte delle donne. Uccide i figli, uccide le madri.
Al rione Tamburi, quello più vicino all’incubo che non fa dormire, ai bambini è stato proibito di giocare per strada, di correre all’aperto, di ridere sotto il cielo, sentire il sapore del vento, ascoltare il rumore delle onde che non sarebbero lontane da casa, e che invece paiono un sogno remoto.
Il resto è storia nota, compresi i morti di lavoro, perché quando il metallo si fa lava, il rischio è sempre alto. L’ultimo a scontarlo è stato il 13 giugno scorso Alessandro Morricella, 35 anni, di Martina Franca, una moglie, due figli. Finito da una colata di ghisa a milleduecento gradi all’altoforno 2, poi messo sotto sequestro dalla magistratura, perché la produzione non può passare sopra il cadavere dei produttori, e bisogna capire cos’è successo, prima di ricominciare.
Meglio, bisognava. Perché adesso non sarà più necessario, dato che per “garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale (come l’ILVA, appunto) non è impedito dal provvedimento di sequestro […] quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori”.
Chi lo dice? Un emendamento voluto dal Governo e inserito dalla maggioranza in Parlamento all’interno del provvedimento in materia di fallimenti recentemente approvato, con fiducia, ci mancherebbe altro, dalla Camera. La produzione deve andare avanti, basterà che l’azienda si impegni in un piano di sicurezza, pure solo sulla carta, che nessun intoppo potrà fermarla. All’ILVA non si morirà più. O almeno per la legge.
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