“L’invasione è uno stato d’animo, non la realtà”. Sono parole di Valerio Cataldi, apprezzato e coraggioso inviato del Tg2, nel suo editoriale pubblicato da Articolo 21. Si riferiscono alle modalitá di racconto e di descrizione della cosiddetta “invasione” dei migranti, di quella “ondata senza fine” o “esodo biblico”, per restare nei luoghi comuni, che ogni giorno segnano le aperture dei media nazionali, ed in particolare dei Tg, pubblici e privati, anche se le eccezioni non mancano.
Cataldi, da esperto conoscitore della materia ci segnala che i dati, forniti dal Viminale e relativi agli arrivi, indicano una diminuzione del fenomeno, anche perché molti di loro, una volta arrivati in Italia, ripartono per il Nord Europa.
Questo dato, ufficiale, viene quasi sempre omesso e comunque non viene riportato con la necessaria evidenza, quasi fosse uno sgradevole particolare, non in linea con l’industria della paura. Eppure basterebbe riportarlo, magari a corredo di ogni servizio sulle “invasioni”.
Allo stesso modo sono diventati titoli, capaci di produrre odio e livore, anche le panzane su Ebola, la diffusione della tuberculosi, i 40 euro al giorno regalati ad ogni disperato, per non parlare dei campi di prigionia descritti come resort a cinque stelle.
Queste leggende metropolitane hanno contribuito e contribuiscono non poco a creare un clima, ad espandere in modo artificioso la paura e preparano il terreno, spesso in modo inconsapevole, all’industria della paura e del razzismo.
Non si tratta di censurare qualcosa o qualcuno, e tanto meno di nascondere il malessere sociale, le questioni poste dall’ immigrazione, lo scontro tra antiche e nuove poverta, le contraddizioni presenti anche nelle politiche della accoglienza e della integrazione, ma un conto é descrivere e comprendere le paure e dare loro rappresentazione politica e mediatica, altro é invece soffiare sul fuoco, usare il linguaggio dell’odio, nascondere i dati, inquinare i pozzi della civile convivenza.
Dati alla mano i costruttori di muri e i propagandisti dell’odio hanno tempi televisivi infinitamente superiori a chi tenta di realizzare i ponti del dialogo e della integrazione possibile. Queste scelte, editoriali, ancor prima che politiche hanno un peso determinante nell’amplificazione delle paure, pur legittime, di milioni di cittadini.
Le riflessioni di Valerio Cataldi coincidono con quelle di un altro giornalista, Roberto Reale che lavora a Venezia ed ora insegna alla Universitá di Padova. Reale, autore del libro “Oltre la notizia” e da sempre attento alla ricerche sul rapporto tra fonti, testo e contesto, ci ha segnalato che, anche quest’anno, i reati, cifre ufficiali alla mano sono calati del 9%, le rapine del 12%, i furti del 5,6%.
Viviamo allora in un paradiso? Certamente no. Non esiste un problema di criminalitá e microcriminalitá? Neppure per idea. Bisogna eliminare la cronaca nera dai media, tesi cara anche al cavalier Mussolini? Ci mancherebbe altro, detto per inciso, non accetteremmo mai una legge o una direttiva che dovesse dettare cosa e come scrivere.
Tutto ció premesso si potrá almeno discutere del rapporto tra fatti e parole?
Perché l’ultimo furto in villa diventa una notizia e i dati reali sulla criminalitá no?
Perché mai cinque delitti possono riempire l’intero palinsesto, anche pubblico, e mille morti sul lavoro non fanno notizia, soprattutto se queste vittime sono straniere e magari muoiono mentre stanno raccogliendo i pomodori nei campi di Puglia a 3 euro all’ora?
La risposta non é difficile: la cronaca nera corrisponde alla spirito dei tempi e sollecita il pugno duro, le morti sul lavoro chiamano in causa la questione sociale e sollecitano altri valori e altre risposte.
La progressiva rottura del rapporto tra fatti e parole, qui denunciata da Valerio Cataldi e da Roberto Reale, non possono non suscitare una riflessione all’interno della professione, delle redazioni, dei suoi istituti di categoria. Non si tratta di vietare qualcosa, ma di tornare a riflettere sui fini del giornalismo, sull’uso delle fonti, sul rigore del linguaggio, sul diritto di prendere posizione, ma anche sul dovere di non nascondere i fatti.
Proprio perché siamo contrari ad ogni norma bavaglio di qualsiasi natura e colore, dobbiamo ora affrontare con altrettanta determinazione questi temi. Per altro i doveri del giornalista sono giá racchiusi nelle carte deontologiche nei contratti, nulla di piú, nulla di meno. Quello che manca non sono le regole, ma una tensione che sappia farle vivere ogni giorno, anche quando questo dovesse richiedere qualche salutare discussione dentro le redazioni.
Per queste ragioni Articolo 21 aderisce alla proposta di Valerio Cataldi di aprire una discussione sul tema, magari uscente dai confini della sola “corporazione” e coinvolgendo associazioni quali la Carta di Roma e Redattore sociale, che stanno svolgendo un lavoro quotidiano e prezioso, ma anche ricercatori, Universitá, il mondo del volontariato e dell’associazionismo, quanti hanno a cuore i valori racchiusi nell’articolo 21 della Costituzione.
Questo percorso sará tanto piú proficuo, se sará condotto coinvolgendo la Federazione della Stampa, l’Ordine dei giornalisti, le loro articolazioni regionali, i comitati di redazione, le colleghe e i colleghi interessati a tornare a riflettere non solo sui diritti del giornalista, ma anche sui doveri che fondano il patto di lealtá con il cittadino lettore o spettatore.
In questa direzione va la riflessione qui sviluppata dal segretario dell’Usigrai Vittorio Di Trapani e la richiesta di confronto con il nuovo gruppo dirigente della Rai.
Nel 1993 inizió un lungo confronto che approdó poi alla stesura della Carta dei doveri, ancora oggi testo di riferimento per tutti i giornalisti.
Oltre 20 anni dopo, bisognerà ripartire da quel testo, non tanto per scrivere altre carte ed altre norme, ma almeno per ridare significato, forza e rinnovata passione civile a valori e principi che rischiano di essere travolti dal cinismo e dalla demagogia.