Ha fatto scalpore la recente inchiesta del New York Times sulle presunte “schiavistiche” condizioni di lavoro utilizzate dal gigante delle vendite via internet Amazon del quindicesimo uomo più ricco al mondo, Jeff Bezos (azionista di riferimento del concorrente Washington Post, mentre per il NYT lo stesso ruolo è ricoperto dal magnate messicano delle TLC, Carlos Slim, l’uomo più ricco al mondo secondo Forbes). Aldilà delle smentite di Bezos e delle repliche del NYT, c’è un dato inquietante che emerge da questa come da altre inchieste, che si sono permesse di investigare sulle condizioni di lavoro nei colossi del WEB (Apple, Google, e-Bay, concorrente diretto di Amazon per le vendite online, ecc…).
Le società più innovative, tranne eccezioni (che però sono auto-promozionate e rilanciate su internet come “paradisi” della new-economy), sembrano aver scelto metodi lavorativi di stretta osservanza “fordista”. Se vi si trovassero tutti bene, remunerati al top e “coccolati” dalle rispettive aziende, non si capirebbe allora come mai, da quanto risulta dalle inchieste giornalistiche americane, la media di permanenza al lavoro dei loro occupati (soprattutto giovani e in gran parte laureati) non superi i 12 mesi. E neppure si capirebbe come mai, molti di quelli che abbandonano questi dorati territori della “New Frontier”, poi rilasciano dichiarazioni al vetriolo sui maggiori quotidiani internazionali (anche l’autorevole Guardian inglese si è occupato in passato della questione).
In realtà, la concorrenza tra gli Over The Top del WEB è spietata e portata all’estremo pur di far guadagnare alla Borsa di Wall Street qualche centesimo di dollaro in più, giorno dopo giorno, ai famelici azionisti singoli, istituzionali, fondi pensionistici, banche d’affari. E così si riscopre “l’acqua calda”: bassi salari, turni massacranti di lavoro, clima da “grande fratello” per il controllo di movimenti, ritmi e pause, oltre che delle idee e delle comunicazioni interpersonali.
Chi c’è dietro le nostre richieste internet di inviarci in breve tempo da qualsiasi parte del mondo gli oggetti dei nostri momentanei desideri? Chi materialmente prende dagli appositi scaffali negli sterminati magazzini di queste società eredi del “postal market” di ottocentesca memoria? E chi ce li spedisce senza mai sbagliare indirizzo? E’ un po’ come affidarsi ai call center delle società della telefonia mobile per conoscere e valutare le proprie condizioni contrattuali o delle compagnie aeree “low cost” per avere informazioni sui voli. Non sai mai da quale parte del mondo ti rispondano in italiano, inglese, spagnolo e francese spesso dalle intonazioni molto particolari.
Di fatto, l’economia globalizzata e le transazioni finanziarie ultraveloci spingono ad una spietata concorrenza le grandi multinazionali che operano su internet (negli Usa il principale rivale di Amazon è la catena Walmart), pur di strappare qualche centesimo di dollaro ad operazione, che poi diventano milioni di dollari di utili, visti i numeri altissimi di contrattazioni. Solo utilizzando una “manodopera intelligente e performante” a basso costo e ad elevata produttività si possono mantenere i ritmi di guadagni attuali. Non solo, ma il sistema di lavoro precarizzato, contrassegnato da un costante abbandono dopo un periodo non molto lungo, permette a queste società di tenere bassissimo il “costo del lavoro”, annullando quasi gli oneri dei contributi assistenziali e previdenziali.
Per i governi degli stati più industrializzati (del G/8 e dell’OCSE), dominati dall’ideologia politica iperliberista, queste società sono una “mano santa”, perché permettono di tenere sotto controllo il livello degli alti tassi di disoccupazione, di attuare politiche occupazionali sempre più permissive e precarizzanti, di ridurre la spesa pensionistica e sanitaria. Restano però al palo gli introiti fiscali, visto che quasi tutte queste multinazionali scelgono con oculatezza e furbizia i paesi con la fiscalità meno esosa (Irlanda e Lussemburgo per l’Unione Europea, ad esempio) e riescono tramite il lavorio lobbistico penetrante a determinare anche le scelte dei governi (vedere come Renzi ha cancellato la tassa sulle società WEB e come ha reso stabile la precarizzazione del lavoro col Jobs Act).
Come si vede, non sempre l’uso degli algoritmi e l’innovazione tecnologica che stanno dietro allo sviluppo industriale e finanziario globalizzato portano con sè anche innovazioni dal punto di vista sociale-lavorativo. Anzi, per ora, assistiamo ad un processo inverso, di “ritorno al futuro” con la “riscoperta” attualizzata e più subdola, perché ammantata mediaticamente di modernità, di sistemi che tra gli anni Sessanta e Settanta le grandi battaglie operaie e politiche avevano relegato tra i vecchi arnesi storici dello “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Come sembrano lontani i tempi delle analisi del grande filosofo Herbert Marcuse, quando con il suo “L’uomo ad una dimensione” sosteneva che “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”, esprimendo così tutto il suo pessimismo sul rapporto tra progresso tecnologico ed emancipazione umana.
Se allora, e ancora oggi, molti intellettuali, ricercatori ed analisti poitici pensano che un giorno, grazie al progresso tecnologico, si potrà vedere “l’immaginazione al potere”, come propugnava Marcuse, in realtà oggi più che mai subiamo “il potere dell’immaginazione”, mediaticamente e finanziariamente ben ancorato nelle mani sapienti dei fordisti del WEB.
E alle nuove generazioni, quelle che al 50% non trovano o non cercano più lavoro, gli si lascia di “immaginare” un futuro all’altezza dei loro smartphone e di una società altamente tecnologica, che dovrebbe renderli felici e appagati, ma che invece regala solo brutti incubi e tanta precarietà.