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Ezio Mauro, il Cda Rai e altre storie “di merito”

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La Rai ha un nuovo Cda, un nuovo presidente e anche un nuovo direttore generale. Nella più consolidata e vecchia tradizione, le nomine le hanno fatte i partiti e, per parte propria, il Governo; nulla da eccepire, è sempre stato così, non vedo perché sarebbe dovuto essere diverso ora. Solo perché qualcuno parla di cambiamento, non è detto che sia vero.

Fra i commenti più pungenti, quello di Ezio Mauro, che descrive la situazione che si è venuta a creare come una, anzi, la palude, e senza risparmiarsi nei toni. Scrive il direttore de la Repubblica: “Non c’è azienda, nei profili che sono stati scelti, e non c’è cultura. Piuttosto, solo una lottizzazione asfittica, che imprigiona quel che può della televisione pubblica, rinunciando a governarla. Quel che stupisce è infatti la rinuncia ad ogni ambizione di cambiamento. Partito per liberare la Rai dalla politica, Renzi ha riprodotto a viale Mazzini la controfigura rimpicciolita e deformata di un sistema politico allo sbando, con i partiti  –  ad eccezione dei grillini  –  capaci soltanto di riprodurre sé stessi replicandosi al peggio. […] Nessuno si aspettava rivoluzioni: ma almeno il tentativo di restituire la televisione al mercato, alla concorrenza, a se stessa, attraverso l’indipendenza e l’autonomia. In tutta evidenza è ciò che la politica non vuole. Impaurita e impotente, preferisce occupare con i suoi segnaposto una delle aziende cruciali per quel futuro di cui parla continuamente a vuoto”.

Lottizzazione, profili senza tecnica e senza cultura, spazio occupato con dei segnaposto. Tutti i partiti, in quel Cda, replicano sé stessi. Tranne uno: il M5S. Va dato atto a loro, va dato atto a Mauro che lo dice chiaramente: i pentastellati (e Sel) non votano per uno “del proprio giro”, ma scelgono un autore e dirigente televisivo ed esperto di comunicazione di provate competenze, al di fuori della cerchia ristretta della politica, dimostrando che quello che afferma Renzi sull’impossibilità di fare altrimenti, legge Gasparri vigente, non è affatto vero. Si poteva, non si è voluto.

Per il resto, giudicate voi scorrendo quei curricula: portavoce, portaborse, anche se il politically correct li vuole “assistenti” e “collaboratori”, qualche giornalista più o meno bravo, una presidente che viene dalla direzione di una rete che è stata capace di far passare dal già basso 0,68% di share al quasi impercettibile 0,57, un direttore che l’ultimo anno l’ha passato al tavolo dell’organo di gestione di Poste Italiane, quando si dice “poste e telecomunicazioni”, evidentemente.

Scandalizzato? Quando mai. Nulla c’è di inatteso in quello che è accaduto, nulla di nuovo, nulla di diverso da quanto è sempre stato. Come non c’è niente di strano nelle carriere fatte di relazioni e contatti, nelle partecipate affidate agli amici e nei figli assunti dalle controllate: è L’avvento della meritocrazia (prendendo spunto dal titolo dell’opera di chi per primo ha usato quella parola), che come sappiamo non c’entra affatto con le qualità e le capacità del nominato, ma con le idee e i fini di chi lo nomina.

Dopotutto, si sa: è il merito che promuove i più bravi e i volenterosi e boccia gli altri, come dubitarne. “Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri, ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”.


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