«Per le mafie controllare i propri territori, garantirsi impunità, costruire consenso e legittimità sociale vuol costringerla al silenzio»: l’incipit della Relazione Mafia, Giornalisti e mondo dell’informazione porta con sé il senso dell’intero lavoro della Commissione antimafia sui rapporti tra criminalità organizzata e informazione. Approvata all’unanimità, la Relazione della Commissione è la denuncia forte di un’informazione troppo spesso vittima del sopruso mafioso, condizionata e resa schiava, talvolta, degli interessi dei malavitosi. A rispondere alle domande di Articolo21 Claudio Fava, che ha coordinato l’inchiesta parlamentare di cui la Relazione è frutto.
L’informazione nostrana non gode certo di ottima fama: secondo i dati Reporters Sans Frontières, infatti, l’Italia occupa solo il 73esimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa. Quanto le pressioni della malavita organizzata – raccontate nella Relazione – influiscono su questo dato preoccupante?
La mafia incide nel senso che vi è una situazione di grande disagio e di grande rischio per i giornalisti. Non incide solo la criminalità organizzata, perché da questa Relazione viene fuori un quadro in cui i fattori di rischio per un giornalista che si occupa di mafia sono tanti. C’è la mafia in senso stretto, c’è la minaccia, l’intimidazione, la violenza; c’è il rischio di azioni giudiziarie, affidate poi a amici o sodali dei mafiosi, quali usano in modo spregiudicato gli strumenti del diritto per creare condizione di intimidazione, perché la citazione in giudizio per danni intanto è un danno economico a prescindere dalla attendibilità della denuncia. C’è la fatica di un mestiere fatto spesso in condizioni economicamente molto precarie, contrattualmente inesistenti.
A proposito di questo, nella Relazione si tocca il nodo delicato del cosiddetto «caporalato» dell’informazione. Le debolezze del sistema giornalistico italiano giocano un ruolo importante nel facilitare le pressioni mafiose.
La maggior parte dei giornalisti che ha subito minacce è freelance. Freelance è una categoria assente nella nostra cultura giuridica e nella nostra cultura professionale sul piano contrattuale. E naturalmente è la spina dorsale del giornalismo, del buon giornalismo. Per cui i fattori di rischio sono notevoli ed alcuni di questi vengono abilmente utilizzati anche dalla criminalità organizzata che fa leva sul disagio economico, sulla marginalità economica e professionale. Se un mafioso deve mettere a tacere qualcuno, se quella persona è pagata tre euro a pezzo è più facile ottenere il risultato sperato con lui piuttosto che con l’inviato di una grande testata. Il caporalato dell’informazione espone i giornalisti: li espone anche come obiettivo, come vittime di intimidazioni, di aggressioni. Aggressioni anche mediate da altri strumenti: lo strumento delle querele, come dicevamo prima, nelle cause civili, ma non solo. Anche l’isolamento che si può costruire attorno alla figura del giornalista quando viene attaccato – come è successo, ad esempio, a quel cronista calabrese che ha raccontato per primo gli inchini della Madonna e poi si è sentito additato prima dal sindaco e poi dal prete, per conto del buon nome della famiglia mafiosa e ritrovandosi contro tutto il paese.
Dalla relazione viene fuori con forza la doppia faccia del giornalismo: da una parte i giornalisti minacciati..
..dall’altro un giornalismo prudente, consenziente, a volte reticente, in alcuni casi perfino colluso.
Lirio Abbate, come riportato dalla Relazione, afferma che il rischio è quello di un’informazione irretita in un contesto opaco o strumentale per i mafiosi. Il giornalismo deve dunque in qualche modo difendersi anche da sé stesso: si fa mezzo di supporto al malaffare.
Embedded, come si dice nel linguaggio dei giornalisti inviati di guerra. Cioè è un’informazione che alla fine, nei suoi silenzi, nel suo parlar d’altro, nel suo tentativo di infiocchettare alcune cose rischia di diventare poi strumento di impunità. È una cosa non molto diffusa, particolarmente presente in realtà più marginali, però abbiamo anche casi significativi. Come abbiamo raccontato nella Relazione, dalla Campania alla Calabria alla Sicilia ci sono vicende preoccupanti. Una per tutte quella della Sicilia di Mario Ciancio. Questa sua incriminazione per concorso esterno è una vicenda giudiziaria che non riguarda soltanto lui, perché poi si riflette. Se andiamo a vedere, come abbiamo visto anche nelle audizioni, il profilo complessivo dell’informazione del suo giornale sui fatti di mafia, scopriamo che per trenta anni ci sono aree di forte opacità. Perché se l’editore e direttore di un giornale viene imputato per concorso in associazione di stampo mafioso, e il suo giornale, in passato, ha perfino rifiutato i necrologi di vittime di mafia, dando spazio, invece, alle lettere di mafiosi, le due vicende devono necessariamente, in un ragionamento che affronta la complessità della situazione, essere messe in collegamento. Situazione non così grave, ma preoccupante, anche per altri giornali, per altri gruppi editoriali. Per cui c’è il rischio di una informazione che si allinea, che si adegua. E tutto questo avendo, però, attorno una generazione di giovani cronisti che questo rischio l’ha rifiutato, questo adeguamento l’ha rifiutato e che ne paga anche il prezzo, sul piano dell’isolamento economico, contrattuale, professionale, materiale nei confronti delle minacce della mafia. In Sicilia c’è la vicenda di Ciancio, ma c’è anche la storia di otto giornalisti uccisi dalla mafia perché alla mafia davano fastidio. E c’è la storia di molti giornalisti che corrono il rischio e per questo motivo sono sotto tutela, sotto protezione. C’è la storia di molti giornalisti in Sicilia, in Calabria, in Campania che hanno avuto coraggio, determinazione e puntiglio nel voler raccontare storie di innominabili. Mi sembra, quindi, che la qualità di questo mestiere e la quantità di giornalisti con la schiena dritta – soprattutto tra i meno blasonati, tra i meno conosciuti – resta un saldo attivo, resta un saldo importante.
A pesare sui giornalisti è anche il delitto di diffamazione. Diversi casi di giornalisti condannati ad una pena detentiva per il delitto di diffamazione e la posizione della Corte europea hanno portato a diverse proposte di legge, tra le quali il progetto di legge 925 per la riforma del delitto di diffamazione, in cui si chiede l’abolizione della pena detentiva.
Io penso che si debba osare di più. È bene individuare, quindi punire le querele temerarie. Io credo che andrebbero punite in modo più specifico, altrimenti rischiano di essere autentici atti di intimidazione, in alcuni casi. Andrebbero evitate con rigore particolare da una parte, dall’altra credo che vada garantita, non soltanto la responsabilità e la libertà di informazione, ma anche la capacità del giornalista di potere informare sempre, comunque, dovunque, senza diventare il luogo in cui si sommano le tensioni e le preoccupazioni del paese. Sull’uso che si può fare delle intercettazioni ambientali e telefoniche, il punto non è l’uso che se ne fa, ma evitare di colpire, punire i giornalisti che le usano perché sono forme di censura pericolosa: buona parte delle informazioni che abbiamo e sulle quali abbiamo potuto costruire in questi anni un giudizio su ciò che accadeva intorno a noi, lo dobbiamo al lavoro fatto da alcuni giornalisti e anche alla possibilità che hanno avuto questi giornalisti di pubblicare atti giudiziari, senza i quali il giudizio sui fatti e sui personaggi sarebbe rimasto incompleto.