Berengo Gardin innocente protagonista della “censura momentanea”, operata alla sua opera dal sindaco di Venezia, a cui in passato aveva dedicato un libro capolavoro come “Venise des Saisons” è un sublime testimone della nostra epoca. Una scuola di fotografia lavorando con Il Mondo di Mario Pannunzio, più di 200 libri di “buone foto” come ama chiamarle pubblicate per documentare la memoria vera, profonda di come eravamo, reportage di vita che ha realizzato in cinquant’anni di lavoro, attraverso la fidata macchina, compagna straordinaria e l’amore per la pellicola, elemento puro che non tramuta mai la realtà in finzione.
Un archivio con più di un milione di negativi, un bisogno primario quello di pensare attraverso la fotografia, il desiderio di raccontare “la gente che normalmente non viene fotografata” la gente “normale” come quella di Luzzara, in “Un paese vent’anni dopo” le anime ordinarie che abitano la storia con coraggio e timidezza, la nutrono e la tramandano.
I manicomi e la legge Basaglia, in “Morire di classe”, immagini che nel bianco e nel nero dipingono le parole della Merini: “Le mie impronte digitali prese in manicomio hanno perseguitato le mie mani come un rantolo che salisse la vena della vita”.
Il mondo libero degli Zingari da guardare in modo lieve con occhi nuovi, profeti umili di un pazzo cielo attraversato da grandi pensieri, giri di giostre ed estasi di musica tra persecuzioni e resistenza.
Fotografare per non dimenticare, cronista di vita che trabocca oltre qualunque illusione il lavoro di Berengo Gardin è una dichiarazione di realtà, un dono per il futuro.
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