“Non si sa non si deve sapere” cantava Dario Fo su musica di Paolo Ciarchi in una delle sue celebri pièce. E sì, capita che un silenzio non innocente cali su ciò che risulta eccentrico rispetto alle linee informative dominanti: orchestrate sulla base di dialettiche “tonde”, senza interferenze rispetto al canovaccio dei pastoni politici. Ecco, allora, che solo dire “referendum” risulta un’anomalia. Peccato che nei convegni sulla comunicazione ci si riempia poi la bocca di “democrazia partecipata”.
Ciò che esce dal taccuino della nomenclatura (vecchia e nuova, centrata su vincenti e perdenti da copione) non è notiziabile. I Radicali ne sanno qualcosa, visto che sempre hanno combattuto contro la congiura del silenzio mediatico e l’oscuramento asfissiante delle consultazioni referendarie. Stessa sorte incombe sui quesiti proposti nelle ultime settimane dall’associazione “Possibile” , depositati (da Civati e altre dieci persone) lo scorso 17 luglio presso la Corte di Cassazione.
Quattro temi e 8 Sì: dall’abrogazione dell’Italicum, alle trivellazioni consentite dallo “Sblocca Italia”, alle procedure in deroga per le opere, a vari aspetti del “Jobs Act”, al preside-manager della “Buona scuola”. Il confronto è aperto. Chissà se la presidente e il direttore della Rai metteranno fine ad una chiara censura in atto. L’articolo 75 della Costituzione sottolinea il ruolo del referendum. E’ bene ricordare, allora, che simile forma di decisione rientra in ogni momento nelle tutele previste dalla Carta. Al di là, ovviamente, del giudizio di merito, che legittimamente si esprime con il voto. La delicatissima fase della raccolta delle firme (500.000, come noto) è una sequenza essenziale, la premessa per poter esercitare il diritto.
La stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, certamente non passibile di critiche per eccesso di interventismo (anzi), nel settembre del 2011 varò un Atto di indirizzo teso proprio a raccomandare attenzione alle iniziative di acquisizione delle firme. Insomma, siamo di fronte al capitolo cruciale della cittadinanza, delle pari opportunità, della libertà di esprimere le proprie opinioni incidendo sul senso comune. E’ auspicabile che l’Agcom si ricordi delle sue decisioni e solleciti i media a dare notizia. News, direbbero alla Bbc. Di ciò si tratta, non già di indurre o meno a partecipare ai banchetti. Poiché il tempo della scadenza si avvicina e, quindi, l’omissione diviene un peccato mortale.
Siamo di fronte, del resto, ad un caso specifico ed emblematico di manipolazione. Sottrarre ai cittadini la possibilità di sapere è la negazione del senso profondo della società della conoscenza. Persino un paradosso imbarazzante: cresce la quantità di dati in circolazione e meno si sa. “Conoscere per deliberare” affermava Luigi Einaudi, con ragione e lungimiranza. All’antica (e sempre attuale) suddivisione tra chi ha e chi non ha si aggiunge quella tra chi sa e chi non sa. Una miscela perversa: un vero e proprio “cultural divide”. Ecco perché è essenziale alzare la voce contro un altro “omicidio premeditato” nei media. Ad urlare non dovrebbero essere solo i sostenitori agostani –benemeriti- dei referendum, bensì tutti quanti. A partire da coloro che non ci credono o sono contrari. La salvaguardia di un diritto ha persino maggior valore quando non se ne condivide la sostanza. Brecht ha spiegato quello che succede quando si lascia sola una (presunta) minoranza. Prima o poi la mannaia si abbatte pure sui benpensanti. La censura come modello “naturale”. Erga omnes.