ROMA – In un nuovo documento diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato che in Arabia Saudita centinaia di persone sono state condannate a morte al termine di processi irregolari celebrati nell’ambito di un sistema giudiziario profondamente carente.
Il documento, dal titolo “Uccidere in nome della giustizia: la pena di morte in Arabia Saudita”, illustra l’uso incredibilmente arbitrario della pena capitale in un paese nel quale le condanne a morte sono spesso imposte al termine di processi che ignorano in modo clamoroso gli standard internazionali.
“Condannare a morte centinaia di persone dopo procedimenti giudiziari profondamente viziati è vergognoso. L’uso della pena di morte è riprovevole in ogni circostanza ma è particolarmente da deplorare quando avviene in modo arbitrario e dopo processi del tutto irregolari” – ha dichiarato Said Boumedouha, direttore ad interim del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
“Le carenze del sistema giudiziario saudita favoriscono esecuzioni su scala massiccia. In molti casi, gli imputati sono lasciati senza avvocato e talvolta sono condannati sulla base di ‘confessioni’ ottenute con la tortura ” – ha aggiunto Boumedouha.
L’uso della pena di morte in Arabia Saudita
Tra agosto 2014 e giugno 2015 sono state messe a morte almeno 175 persone, una media di un’esecuzione ogni due giorni.
Un terzo delle condanne a morte eseguite dal 1985 ha riguardato reati che non ricadono nella categoria dei “delitti più gravi”, per i quali secondo il diritto internazionale la pena di morte può essere applicata. Una notevole percentuale delle condanne a morte – il 28 per cento dal 1991 – ha riguardato reati di droga.
Quasi la metà delle persone messe a morte dal 1985, il 48,5 per cento, erano cittadini stranieri. Molti di essi, durante il processo, erano stati privati di servizi adeguati d’interpretariato e costretti a firmare documenti, comprese le confessioni, di cui non avevano compreso il contenuto.
Le condanne a morte sono eseguite tramite decapitazione, salvo alcuni casi in cui viene usato il plotone d’esecuzione. In determinate circostanze le esecuzioni avvengono in pubblico. A esecuzione avvenuta, i cadaveri con le teste mozzate vengono lasciati esposti.
Spesso le famiglie dei prigionieri non vengono informate dell’imminente esecuzione e vengono a saperlo solo dopo, talvolta attraverso notizie di stampa.
Un sistema giudiziario carente
Il sistema giudiziario dell’Arabia Saudita, basato sulla shari’a, non prevede un codice penale. In questo modo, la definizione dei reati e delle pene relative rimane vaga e ampiamente lasciata all’interpretazione dei giudici. Il sistema concede proprio a questi ultimi di usare il potere discrezionale nello stabilire le pene, col risultato che si hanno sentenze contraddittorie e talvolta arbitrarie. Per determinati reati che rientrano nella categoria tai’zir, per i quali la punizione è a discrezione del giudice, un semplice sospetto può spingere il giudice a infliggere la pena di morte sulla base della gravità del reato o del carattere del reo.
Il sistema giudiziario, inoltre, non prevede le più elementari salvaguardie a tutela del diritto a un processo equo. Spesso, le condanne a morte sono inflitte al termine di processi irregolari e di procedimenti sommari che talvolta si svolgono in segreto. Gli imputati sono regolarmente privati dell’avvocato o condannati sulla base di ‘confessioni’ ottenute coi maltrattamenti e la tortura. Non è neanche previsto il diritto a un appello approfondito e degno di questo nome.
L’Arabia Saudita è solita respingere veementamente le critiche sull’uso della pena di morte, sostenendo che le condanne sono portate a termine nel rispetto delle leggi della shari’a e solo per i “delitti più gravi”, al termine di procedure che aderiscono strettamente agli standard internazionali e con tutte le salvaguardie a disposizione degli imputati.
“La pretesa che la pena di morte in Arabia Saudita sia applicata in nome della giustizia e in linea con le norme internazionali non potrebbe essere più lontana dal vero. Invece di difendere questo quadro drammatico, le autorità saudite dovrebbero urgentemente istituire una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e rispettare gli standard internazionali sui processi equi in tutti i procedimenti penali” – ha sottolineato Boumedouha.
Il caso dello sceicco Nimr Baqir al-Nimr, un leader religioso sciita e oppositore del governo condannato a morte nell’ottobre 2014, illustra con chiarezza queste carenze. Lo sceicco al-Nimr è stato condannato per reati di vaga natura, dopo un processo profondamente viziato e motivato politicamente, senza poter preparare una difesa adeguata. Alcuni addebiti formulati nei suoi confronti non sono reati penali riconosciuti dal diritto internazionale dei diritti umani.
“La natura fondamentalmente viziata del sistema giudiziario saudita lascia la porta spalancata agli abusi. Le autorità stanno giocando con la vita delle persone in un modo sconsiderato e agghiacciante” – ha commentato Boumedouha. “Se le autorità vogliono dimostrare il loro impegno in favore di rigorosi standard sui processi equi, devono attuare le riforme necessarie per porre il sistema giudiziario del paese in linea con gli standard e le norme internazionali” – ha concluso Boumedouha.
In vista dell’obiettivo finale dell’abolizione totale della pena di morte, Amnesty International chiede alle autorità dell’Arabia Saudita di limitarne l’applicazione ai reati che includono l’omicidio volontario, secondo quanto prevedono le norme e gli standard internazionali, e di non usarla più nei confronti di minorenni al momento del reato e di persone con disabilità mentale.
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