320 mila migranti, 169 nazioni diverse e condizioni di vita di assoluta precarietà: le campagne italiane, da nord a sud, vedono ogni anno il susseguirsi ininterrotto dello stesso copione. Flussi di braccianti provenienti dalle zone più povere del mondo si spostano nel nostro Paese e lavorano i nostri terreni, quattro stagioni su quattro, dodici mesi su dodici. Le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, stranieri e non, impiegati nel settore agricolo troppo spesso non rispecchiano gli standard richiesti. Non è raro imbattersi in braccianti vittima di vessazioni e soprusi da parte di un datore di lavoro che riporta alla mente l’immagine cruda di uno schiavista d’altri tempi. Lavoro in nero e sottopagato, ma non solo. La manciata di ore che resta a donne e uomini lontano dai campi si trasforma in una lotta alla sopravvivenza, fatta di miseria e degrado. A raccogliere voci e numeri è Medici per i Diritti Umani (Medu), che in un report denuncia le ingiustizie che ruotano attorno a un mestiere, quello dei braccianti immigrati, tanto prezioso quanto crudele.
Con un totale di 26 milioni di giornate di lavoro, i braccianti impiegati nel settore agricolo hanno svolto il 23,2% delle giornate dichiarate nel complesso, tra italiani e non. Per Eurispes (Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali), si parla di lavoro sommerso per il 32% del totale dei lavoratori del settore agricolo e di questi quasi in 100mila sono ridotti a vivere in ambienti del tutto fatiscenti e precari. A lavorare nelle campagne italiane sono soprattutto gli stranieri: arruolati come impiegati stagionali, i braccianti immigrati vengono impiegati in modo particolare per i lavori di raccolta e per mansioni in cui la qualifica non serve. Il lavoro più duro pesa sulle spalle dei migranti che, ciclicamente, arrivano ad affollare le campagne italiane e senza i quali il meccanismo dell’agricoltura si incepperebbe inevitabilmente. La stessa Coldiretti confessa che l’eccellenza del Made in Italy si regge sulle gambe dei lavoratori immigrati, «dalle stalle del nord dove si munge il latte per il Parmigiano Reggiano alla raccolta delle mele della Val di Non, dal pomodoro del meridione alle grandi uve del Piemonte».
Degrado e disperazione: questo quello che emerge dalle ricerche dei medici di Medu. Per undici mesi, da febbraio a dicembre 2014, Medu ha portato avanti il progetto Terraingiusta, attraverso il quale l’organizzazione umanitaria si è preposta in primis di soccorrere dal punto di vista sanitario chi ne avesse bisogno, portando avanti parallelamente un’azione di denuncia delle difficoltà incontrate dai soggetti nell’accesso alle cure e delle frequenti violazioni dei diritti umani. Nell’impresa, Medu si è avvalso della collaborazione di altri importanti attori, quali Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti dell’Università di Roma Tre (Ltpd). Insieme hanno tracciato un disegno il cui obiettivo è quello di «promuovere la tutela della salute e delle condizioni di lavoro dei migranti impiegati nel settore agricolo in alcuni dei territori più critici del Mezzogiorno d’Italia». Non solo: Medu ha fatto di Terraingiusta lo strumento affinché l’accesso e la fruizione dei diritti fondamentali dei braccianti – oltre che la stessa conoscenza dei diritti – fossero facilitati. Al lavoro concreto di ambulatorio, Medu ha affiancato quello di indagine grazie al quale si è delineato lo scenario di sfruttamento e ghettizzazione tratteggiato nel report.
Azione e osservazione insieme e Terraingiusta si concentra su quei territori martoriati dalla piaga del caporalato: dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria alla Piana del Sele in Campania, dal Vulture Alto Bradano in Basilicata all’Agro Pontino nel Lazio, fino a tornare al sud con il monitoraggio della Capitanata in Puglia. Le voci dei braccianti e i dati maturati nell’indagine sono convogliati nel rapporto presentato da Medu ad aprile. Questo è la rappresentazione «della situazione attuale con le sue criticità più gravi, i tentativi di cambiamento, le poche buone pratiche e le possibili soluzioni», ma è anche – e soprattutto – strumento adeguato per conoscere e comprendere un fenomeno troppo spesso taciuto e ormai radicato in alcuni territori d’Italia, quello dello sfruttamento dei braccianti immigrati.
È dall’Africa subsahariana che arrivano i circa duemila lavoratori che, da novembre a marzo, vengono impiegati nella piana di Gioia Tauro, tra i comuni di Rosarno, San Ferdinando, Goia Tauro, Rizziconi e Taurianova. I dati raccolti da Medu parlano di una vera zona franca in cui la sospensione dei diritti umani è consuetudine. È valsa a nulla, quindi, quella rivolta dei migranti che nel 2010 fece puntare i riflettori sulla realtà di sfruttamento e miseria in cui i braccianti venivano relegati. Le criticità maggiori riscontrate dal team di medici, oltre a lavoro nero e sottopagato, condizioni di vita degradanti.
Il filo rosso che lega tutte le regioni è la grave carenza di credibili programmi di rilancio del settore agricolo in grado di dare respiro all’economia locale e di scalzare il cancro del caporalato. È a causa soprattutto dell’assenza della volontà politica che la situazione incancrenisce e non si affronti il problema con gli strumenti e l’energia necessari.
È chiamata la «California d’Italia» per la ricchezza della sua agricoltura e per i prodotti d’eccellenza. Siamo in Campania e i medici di Medu hanno rilevato, attraverso le testimonianze dei lavoratori, che, sebbene il 60% di questi abbia un contratto di lavoro e due su tre siano in possesso di un regolare permesso di soggiorno, le modalità lavorative cui sono sottoposti rientrano appieno in sistemi di sfruttamento in cui caporalato e sottosalario sono all’ordine del giorno. Irregolarità contributive e vendita di falsi contratti di lavoro sono consuetudine tra i braccianti italiani e stranieri che lavorano le terre campane e le condizioni di emarginazione sociale in cui questi vivono troppo spesso si tramuta in un difficile accesso alle cure. È stato, infatti, constatato che solo il 50% dei braccianti con regolare permesso di soggiorno è iscritto al Sistema sanitario nazionale.
Anche la Basilicata ricade tra i territori presi in analisi dai medici di Medu per l’evidente afflusso di lavoratori che, prevalentemente nella stagione estiva, raggiungono le campagne dell’area del Vulture-Alto Bradano, per la raccolta di pomodoro. Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio e Montemilone sono stati i centri in cui l’ambulatorio mobile di Medu ha stazionato per prestare soccorso ai lavoratori migranti della zona e portare avanti parallelamente la ricerca. Nonostante la Regione Basilicata abbia messo in piedi una Task force volta proprio a sopperire le gravi lacune che affliggono il territorio nell’ambito della tutela e dell’accoglienza dei migranti, le condizioni restano critiche, sia dal punto di vista lavorativo che abitativo. Medu ha rilevato che il 92% dei lavoratori stagionali stranieri presenti in Basilicata è in possesso di un regolare permesso di soggiorno, che, però non è sufficiente a garantire che essi non cadano sotto il controllo dei caporali. Sempre attraverso il lavoro di Medu, molti dei migranti intervistati hanno rivelato che non c’è la certezza che tutte le giornate passate nei campi saranno riconosciute e retribuite dal datore di lavoro italiano.
Sul territorio pugliese, i medici di Medu hanno concentrato la loro attenzione laddove il fenomeno dei braccianti stagionali risulta più massiccio, ovvero in quello che storicamente è noto come Capitanata, nella provincia di Foggia. Sono ventimila i migranti che, dai Paesi dell’Europa dell’Est e da quelli africani, arrivano nella Capitanata per la raccolta di frutta durante buona parte dell’anno e di pomodoro nei mesi estivi. Le condizioni in cui, soprattutto nella stagione estiva – quando il numero dei lavoratori aumenta –, i braccianti lavorano e vivono sono al limite e i medici di Medu hanno avuto modo di constatarne la gravità visitando i “ghetti” in cui i braccianti stranieri vengono relegati. È ancora una volta la figura del caporale a farla da padrone: i braccianti vengono reclutati e sono vittima troppo spesso di sottosalario e contratti e pagamenti irregolari. La Regione Puglia ha cercato di tamponare la situazione mettendo in piedi l’iniziativa Capo free ghetto off. Puntando tutto su accoglienza e lavoro, su assistenza sanitaria e tutela legale, su contrasto del caporalato e sostegno alle imprese etiche, la regione si è impegnata a frenare i problemi che affliggono la realtà dei braccianti, con risultati, però, scarsi e deludenti.
L’area più a nord sottoposta all’analisi di Medu è quella dell’agro pontino. La provincia di Latina è una delle più ricche dal punto di vista agro-alimentare. Conseguenza diretta è la presenza sul territorio di un consistente numero di lavoratori stranieri. Arrivano soprattutto dal Punjub indiano e nella zona del sud pontino hanno costituito una comunità strutturata. Dei migranti assistiti dai medici di Medu, il 99% è in possesso di regolare permesso di soggiorno e di questi il 70% lavora nel settore agrario. Sebbene quasi il 90% di questi lavori con un regolare contratto, si incappa spesso nella lesione profonda dei diritti dei lavoratori. Non soltanto orari di lavoro illegali, sottosalario e pagamenti irregolari, i lavoratori sono vittime di un caporalato aggressivo paragonabile ad una vera e propria «tratta» che inizia addirittura con l’ingaggio nel Paese di provenienza.
È una terra ingiusta, quella su cui si muovono i braccianti immigrati in Italia. Una faccenda, questa, che si intreccia e complica con quella mai risolta della questione meridionale. Il report di Medu spiega bene «la drammatica attualità delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura». Il fenomeno – portato alla ribalta delle cronache nazionali sul finire degli anni Ottanta con l’uccisione di Jerry Masslo a Villa Literno in Campania e nel 2010 con la rivolta di Rosarno in Calabria – non ha suscitato reazioni forti nell’opinione pubblica come nelle istituzioni, che, di fatto, hanno lasciato invariata la situazione. Di fronte alla realtà al limite della drammaticità descritta da Medu, la risposta di istituzioni territoriali e nazionali è stata praticamente nulla e quando c’è stata – come nei casi di Basilicata e Puglia – il problema si è mostrato in tutta la complessità, evidenziando le falle nel concretizzare le soluzioni avanzate. Quello che chiede Medu attraverso il report è che le istituzioni si impegnino ad attuare provvedimenti urgenti, affinché le condizioni di vita dei braccianti migliori già dalla prossima stagione. Ovviamente un intervento tempestivo non esclude la necessità di stilare un programma in cui energie e risorse vengano impiegate per trovare una soluzione a lungo termine del problema. Mettere la parola fine alla vergogna di questa terra ingiusta è un imperativo morale, dare una risposta all’umanità calpestata una necessità.