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Tatti Sanguineti: il cervello di Alberto Sordi (seconda puntata)

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Alla trattoria dei Fratelli Menghi in via Flaminia 57, adiacente Piazza del Popolo, passavano nel dopoguerra tutti gi artisti che non avevano soldi per pagare il pasto, pittori  in prevalenza, Accardi, Consagra, Vedova, D’Orazio, Maccari, poi imitati dai cinematografari: sceneggiatori, attori, futuri registi. Una fucina di talenti che si ritrovavano a tavola vagheggiando il successo. Nel film Una vita difficile, scritto da Rodolfo Sonego e diretto da Dino Risi, quell’estrosa atmosfera viene rievocata fedelmente; Alberto Sordi, nel ruolo di Silvio Magnozzi aspirante giornalista squattrinato, ci portava a cena la bella e affamata fidanzata, Lea Massari, che dopo la liberazione lo aveva seguito per amore  dal Veneto nella Capitale. Sonego raccontava nel film la sua vicenda personale, un’autobiografia appena un po’ rimaneggiata: “Sono io che ho fatto quella guerra lì, che arrivo a Roma, che trovo questa trattoria, che mi incontro con questo mondo, e dentro questo mondo costruisco poi tutta una fiaba”. Sordi affrontò la storia, che si svolgeva nell’arco di quindici anni, dal ’45 al boom economico, “con quel suo formidabile istinto animalesco”. Per la parte della moglie in un primo tempo era stata contattata Gina Lollobrigida, che aveva fatto leggere il copione anche al marito e nella sua villa sull’Appia Antica aveva detto allo sceneggiatore che voleva assolutamente un numero di pose uguale a quelle di Sordi. “Signora, non si può”. Aveva risposto laconico Sonego, che aggiunge: “Abbiamo chiuso lì, soltanto per la quantità delle scene della signora Magnozzi”.

L’editore, che il protagonista nel finale, recuperato l’amor proprio, con un manrovescio  scaraventa in piscina vestito di tutto punto, è ispirato a Angelo Rizzoli, che stravedeva per Rodolfo ma voleva comprargli l’anima. “Era proprio la mia vita. Non solo misi dentro al film facce, amici, conoscenti, di tutto: c’è anche dentro la moglie del mio dentista… ma seguii l’intera lavorazione sul set. Ad esempio mi occupai molto della scena della festa dei monarchici avendo intravisto famiglie del genere quando da ragazzo frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Torino”. Lo stesso Risi ammetteva senza esitazione che le battute del film erano tutte di Sonego: “Nessuno avrebbe saputo recitare come Sordi quello che Rodolfo scriveva. Gli altri non ci arrivavano. Non avrebbero mai potuto dire: “Tu sei mia moglie, non sei neanche una mia parente!” Ugo Pirro e altri spingevano per Mastroianni: “Ma Marcello è troppo buono, troppo eroe. Temevo che portasse nel film un certo perbenismo, una nota conformista”. “Pirro, Solinas, Gillo (Pontecorvo) avrebbero messo Che Guevara dappertutto, volevano le cose politiche, che io trovavo impolitiche”. Ho sempre avuto un orrore profondo, inestinguibile per quello che in Italia si chiamava cinema impegnato, in cui ogni battuta è una lapide”. L’intenzione  era di realizzare un romanzo cinematografico: “Volevo che il film finisse con l’accettazione del benessere e la triste rinuncia ai propri ideali da parte del giornalista, coerentemente con il resto della vicenda che rappresenta il graduale disfacimento morale e ideologico del personaggio”. L’incontro tra Alberto Sordi  e Sonego cambiò a entrambi la vita. Nell’arco di quarantasei anni, dal 1954 al 2000, insieme fecero cinquantatre film: “Io li difendo i trent’anni di copioni con Sordi: sono esattamente la registrazione della realtà. La realtà un po’ spaventosa di un italiano che non è più né contadino né operaio, ed è diventato mostro”.  E qui interviene l’istinto infallibile di Sordi: “C’è una certa follia in Sordi, nella sua vita, non soltanto nella sua professione”, che lo porta a non avere mai paura di un personaggio, sia pure il peggiore, il più abietto, come invece accade agli altri attori. “Se gli presentavano un mostro politico, anche se era un po’ pericoloso da rappresentare, lui aveva una forma di incoscienza che lo portava ad accettare. Era quasi attratto dal ‘male’, dal pericolo”. Sordi non leggeva libri, “faceva fatica a scrivere anche una cartolina”, la sua cultura era circoscritta a “Roma, il teatro di varietà, l’avanspettacolo, il mito del cinema, Hollywood”.  “I limiti che gli vengono attribuiti, per esempio quelli della sua matrice sociale piccolo-borghese, il suo rifiuto della cultura come rifiuto dei libri e delle biblioteche, il suo rifiuto per esempio di tutte le scuole politiche, l’accusa di qualunquismo, e anche cose meno edificanti ripetute su di lui, non tolgono assolutamente niente alla sua capacità e coraggio di capire un film importante, anche se i contenuti del film erano lontanissimi dalla sua vita privata e dalla sua cultura”. All’inizio Sordi aveva avuto vita dura, mal gradito  alle produzioni  assediava Sergio Amidei per avere una parte e veniva mandato regolarmente a quel paese: “Via via! Non mi rompere la palle!”  “Col successo la sua diffidenza era aumentata e in lui riaffiorava il marchio rabbioso delle vecchie umiliazioni sofferte. Non aveva pietà per gli altri, dal momento che gli altri ne avevano avuta, un tempo, così poca per lui. Non era indulgente, anzi gli sforzi che egli stesso aveva fatto l’avevano irrigidito in una concezione della vita estremamente realistica. Molti intorno a lui lo consideravano cinico ma si trattava soprattutto di una difesa dura e sterile verso tutte le interferenze che potessero sottrargli una parte del successo raggiunto”.

Impareggiabili lezioni di cinema: basta aprire il libro a caso.

 


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