Avevano in mente di realizzare una biblioteca, piantare un bosco, portare giocattoli, contribuire in qualche modo alla rinascita di Kobane, il centro a maggioranza curda in territorio siriano che nell’autunno 2014 aveva subito l’offensiva dello Stato islamico, poi respinta in quello che è diventato un nuovo capitolo dell’epopea della resistenza curda.
I ragazzi e le ragazze, tutti volontari della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti, uccisi dall’attentato che il 20 luglio ha distrutto il Centro culturale Amara della città di Suruç, al confine tra Turchia e Siria, avevano un obiettivo nobile, dunque: aiutare la ricostruzione di Kobane perché a poco a poco vi tornassero i 200.000 rifugiati che, tra settembre e ottobre dello scorso anno, erano fuggiti alle orde dello Stato islamico.
Per le modalità con cui è stato portato a termine, pare evidente che l’attentato avesse l’obiettivo di fare il maggior numero possibile di vittime civili. E chi l’ha organizzato c’è riuscito in pieno.
A Suruç probabilmente si è compiuta una vendetta dello Stato islamico nei confronti dei resistenti di Kobane, dove quasi in contemporanea c’è stato un altro attentato. Secondo le fonti ufficiali, a farsi esplodere in mezzo ai volontari socialisti sarebbe stata una loro coetanea.
Le autorità turche hanno condannato senza riserve l’attentato, e non potevano fare altrimenti. Ma si poteva fare altrimenti in un altro contesto: quello della sicurezza e della protezione dei civili nelle città e nei villaggi prossimi al confine con la Siria.
Un confine poroso, fragile, dal quale è entrato, proveniente dalla Siria, oltre un milione di rifugiati e dal quale, forse, sono passati gli organizzatori e l’autrice dell’attentato di Suruç e magari anche quelli che seminarono panico e morte il 5 giugno, pochi giorni prima delle elezioni, a un comizio del leader curdo Selahattin Demirtas nella città di Diyarbakir.
Un confine lungo il quale, durante il conflitto siriano, vi sono stati tanti movimenti di uomini e armi diretti verso la Siria. Un confine simbolo dell’ambiguità dell’atteggiamento turco nei confronti dei gruppi armati islamisti che si oppongono al regime di Bashar al Assad.
Ne hanno fatto le spese decine di ragazze e ragazzi innocenti. Come, ed è il paragone che mi è subito venuto in mente, a Utoya, in Norvegia il 22 luglio 2011.