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Strage di Viareggio, “non pervenuta” nelle agende delle istituzioni

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Se vi capitasse di passare da Viareggio, consiglio una sosta alla casina dei ricordi. Poco distante dal rogo avvenuto il 29 giugno del 2009 le famiglie delle vittime e i sopravvissuti hanno deciso di allestire un luogo che custodisce frammenti della loro vita vissuta fino all’attimo  in cui le fiamme l’hanno incenerita.  Ricordi di figli che non potranno più abbracciare, di amici con cui non potranno più condividere nulla. Genitori, compagni, mariti o mogli, sorelle o fratelli  con i quali non potranno più proseguire alcun discorso, o anche solo immaginare di costruire qualcosa insieme.  Chiudiamo gli occhi e per un attimo pensiamo – cercando di immaginare –  che quanti ci sono più cari non esistano più: stop, chiuso, fine delle trasmissioni, senza alcuna possibilità di ritorno. La morte interrompe tutto. Bruscamente, dolorosamente e irrimediabilmente senza di loro. La casina dei ricordi è un lieve fermo immagine di una tragica sequenza che, dopo sei anni, per l’opinione pubblica è a malapena un ricordo. Da quanto scrive Daniela Rombi – mamma a cui è stata strappata una delle due figlie – e presidente dell’ASSOCIAZIONE UN MONDO CHE VORREI (info@ilmondochevorreiviareggio.it), la strage di Viareggio, anche per le istituzioni,  è a malapena un ricordo, un ‘non pervenuto” sulle loro agende.
Daniela mi ha mandato  la lettera di un comune cittadino indirizzata alle famiglie delle vittime, ai sopravvissuti, che aspettano tutti noi alla casina dei ricordi.
Testo della lettera
Non sono nato a Viareggio, ma ci abito da 40 anni. Ho una casa nella zona del disastro del 29 giugno 2009 a due, trecento metri dal treno che deragliò. Ho subìto anch’io qualche danno; poca cosa rispetto a chi ha perso la casa, meno di niente di fronte a chi ha perso uno o più familiari.
Non conoscevo nessuna delle vittime, tranne Stefania Maccioni che, avendo lavorato in una lavanderia, mi aveva stirato tante volte i pantaloni.
Nei giorni successivi presi parte a diversi incontri nel tentativo di essere utile e mi aggregai ad una delle associazione che si formarono in quei giorni. Non mi piaceva sentirmi sfortunato e volevo fare qualcosa per chi lo era stato davvero. Vivere in una città vuol dire vivere in una comunità, partecipare alla vita e ai problemi che ci sono e ho cercato, come ho potuto, di essere presente.
In quei mesi del 2009 abbiamo avuto la solidarietà di altre realtà, vittime di tragedie e ci siamo aperti a condividere esperienze. Ho preso parte anch’io a diverse contatti: a L’Aquila, a Torino per il processo Thyssen, a Livorno per la Moby Prince, a Casalecchio di Reno, a Bruxelles per dare un contributo di idee in merito alla sicurezza del traffico ferroviario, nella commissione trasporti del Parlamento europeo.
Non potrò mai dimenticare la testimonianza di Daniela Rombi per la figlia Manuela e di Antonio Lunardi, figlio di Anna Chiara Maccarone, quando descrissero nei dettagli gli interventi e le sedute di sbruschinatura della pelle ustionata, che sua madre aveva subito negli 11 mesi di ricovero a Torino, quando neanche la morfina era sufficiente ad alleviare il dolore. Seguirono minuti di silenzio assoluto, nessuno aveva voglia di ricominciare a parlare.
Come non potrò dimenticare l’impressione nel primo anniversario del terremoto de L’Aquila, in una città resa spettrale dal silenzio, dal buio, dalle case vuote, fra macerie di ogni genere e con un freddo che a Viareggio non abbiamo mai.
Dopo 7 mesi a Viareggio ci fu il carnevale. Fu detto che era un momento importante, perché la vita continua e forse un sorriso poteva aiutare verso la normalità. Ci si credette davvero e fu difficile perfino ottenere, il martedì, l’ultimo giorno, un minuto di silenzio, che la TV non accettò di riprendere.
I familiari delle vittime della strage a più riprese chiesero al capo dello stato un incontro, non hanno ricevuto un “sì” o un “no”, non hanno ricevuto risposta. L’attuale presidente ha declinato l’invito non ritenendolo opportuno con il processo in corso.
La stessa richiesta è stata rivolta a 3 dei 4 presidenti del Consiglio e anche da loro, nessuna risposta.
Ugualmente dai ministri dei trasporti e dai ministri di giustizia avvicendati nel periodo, nessuna risposta.
Sembra che a Viareggio non sia accaduto niente o che quello che è accaduto è meglio dimenticarlo.
Dimenticare contiene la parola mente e vuol dire togliere, rimuovere dalla mente qualcosa, un avvenimento, una persona, come un fastidio.
Non ho condiviso e non condivido il dimenticare, credo sia giusto, invece, il ricordare.
Ricordare contiene la parola latina cuore e significa rivivere un evento col cuore, con affetto, con amore. Quanto è accaduto il 29 giugno 2009, la scia di morti per sei mesi, le persone ustionate, ferite nel corpo, nella mente e negli affetti, chi ha perso la casa, non può essere dimenticato, tolto dalla mente, ma deve essere ricordato perché ha toccato e continua a toccare nelle sue conseguenze la vita di molti di noi.
C’è un’altra parola che mi è molto cara: la parola compassione.
Compassione contiene la parola patire e vuol dire patire con, provare gli stessi sentimenti, sia di sofferenza, che di gioia, o di speranza con qualcuno.
Nel nostro parlare abbiamo una parola ancora più espressiva “condividere”, che vuol dire “dividere con”. Dividere un peso con qualcuno vuol dire sentirlo meno insopportabile, condividere un dolore significa non sentirsi soli, vuol dire sentire che qualcuno ti vuole essere vicino e ti vuole aiutare a portare con te una parte del tuo peso.
Qualcuno mi ha detto che questo è un pensiero tipicamente cristiano,
qualche altro mi ha detto che questa è una visione laica della vita.
Io non so dare una risposta,
penso solo che questo sia semplicemente un comportamento umano di impegno civile

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