In Israele col fardello di quattro rapiti. Per Renzi è arrivato il tempo delle scelte in Medio Oriente.
Troppo grandi per non esserci, e troppo piccoli per non rischiare di essere travolti. E se mai c’è stata un’azione che simbolizza questo insieme di forza e fragilità, il rapimento dei tecnici italiani in Libia ci ricorda proprio in queste ore quanto preoccupante sia la posizione dell’Italia nel mondo che ci circonda.
Inizia all’ombra di questi segnali il viaggio di Matteo Renzi in Israele. Una visita cui il demi-monde politico romano guarda soprattutto come una prova della forza del corposo numero di amici di Israele che circondano il Premier, da Carrai a Gutgeld, che da tempo rappresentano le “speciali” relazioni che il Renzismo ha con lo Stato Ebraico. Affermazione che viene ripetuta come una ulteriore sottintesa prova che il renzismo non è di
sinistra. Sciocchezzaio cui spesso ci autoriduciamo quando parliamo di nostra politica estera, ma che in questo caso rischia di oscurare il fatto che questa visita a Gerusalemme, per altro la prima di un leader
straniero dopo gli accordi nucleari con l’Iran, non sarà affatto una passeggiata.
L’atterraggio a Tel Aviv è in effetti solo l’inizio di un viaggio che farà (deve fare) l’Italia nei nuovi equilibri mediorientali – dopo Israele il Ministro degli Esteri Gentiloni, accompagnato dal Ministro Guidi con rinforzata delegazione di imprese italiane, andrà in Iran, e più tardi a Riad, Arabia Saudita.
Viaggio lungo e molto scomodo, in clima surriscaldato, in cui a ogni passo potrà accadere qualcosa di sbagliato, e da cui, soprattutto, non sarà facile uscire amministrando la solita formula del “ma anche” della
politica estera italiana: quella di stare con questo “ma anche” con quello, tipica ricerca di neutralità terzista dei buoni italiani.
Tutto quello che sta succedendo in questo momento in Medio Oriente va in effetti contro ogni idea e senso di esercizio della neutralità. L’accordo con l’Iran ha spaccato in due la pubblica opinione globale e l’ha
radicalizzata come non mai: negli Usa un Obama sotto attacco virulento risponde a tono ai suoi nemici; in Israele è tornata a galla la opzione di attaccare Teheran; nello stesso Iran venerdì nelle principali moschee del paese le preghiere sono state concluse con migliaia di uomini che gridavano “Morte agli Usa”, e l’Arabia Saudita, che da poco ha rafforzato il suo apparato militare nonché il potere dei suoi vertici, si prepara a dare battaglia attraverso i suoi alleati locali, in Siria, in Iraq, in Libano, in Palestina, a Gaza, e ovunque sarà “necessario”.
L’accordo con l’Iran è certamente un’ottima scommessa sul futuro, sarà forse compreso e vissuto positivamente, come ha detto Obama, dalla generazione dei giovani inquieti e desiderosi di cambiamento che quell’accordo hanno festeggiato nelle strade di Teheran. Ma nell’immediato futuro è più che certo che questa intesa sarà la bandierina di inizio di un nuovo giro di sfide. È un accordo che nella pluridecennale Guerra
per il controllo della regione fra Arabia Saudita e Iran, che è parte a sua volta della secolare Guerra per il controllo religioso delle masse arabe fra Sunniti e Sciiti, è un accordo, si diceva, che sposta la forza a favore degli Sciiti – dunque oggi a favore di Assad (un Alawita, dunque parte degli Sciiti), di Hezbollah in Libano, dell’attuale governo e esercito in Iraq (de-sunnizzato dopo la guerra del Golfo). Pagano prezzo in questo schema Israele, i cui principali nemici sono tutti in questo elenco, e l’Arabia Saudita, ma anche l’Isis che è sunnita. L’accordo avrà anche un impatto sulla miriade di tribù e milizie islamiche che in vari paesi combattono sotto le bandiere sunnite o sciite contro diversi governi a diverso titolo.
Si apre una partita che grandi e potenti governi si apprestano a giocare con il senso che si tratta di vita o di morte – è la campanella d’inizio probabilmente di un nuovo decennio di assestamento o conflitti.
Un panorama cui noi Italiani non possiamo che guardare con preoccupazione proprio perché ne siamo parte in prima linea: l’Italia è il secondo partner commerciale dell’Iran, in competizione solo con la Germania, nonché il suo più antico partner strategico energetico nella regione, grazie alle scelte dell’Eni di Mattei. E il volto della Mogherini, nel suo ruolo di Lady Pesc, è il volto dell’Occidente che ha firmato l’accordo con l’Iran. Una vicinanza, quella tra noi e Teheran, che è troppo forte e chiara per non essere oggi pesata da nostri altri
tradizionali alleati, quale Israele innanzitutto, e il mondo Sunnita tutto, a cominciare da Riad.
E tuttavia su questa prima linea siamo pur sempre troppo piccoli, come economia e forza militare, per poter davvero esercitare un ruolo autonomo. Tanto più da quando gli Stati Uniti, alla cui ombra abbiamo sempre
lavorato, sono in aperto disimpegno dal Medio Oriente e l’Europa, nostra naturale alleata è a sua volta riluttante a impegnarsi troppo in questa zona. Occorrerebbe fare il salto verso lo status di una piccola potenza regionale, e forse, se fossimo un po’ visionari, dovrebbe essere questa la nostra ambizione. Ma con quali strumenti?
Finora abbiamo lavorato in un tradizionale ruolo di mediatori, di coloro che cercano di stare un po’ di qui un po’ di là, chiamando tutto questo “protagonismo di pace” . Tuttavia, le domande che riceveremo nel corso del viaggio dentro il nuovo Medio Oriente non saranno invece molto coerenti con questo ruolo fin qui avuto: ognuno dei nostri alleati ci chiederà da che parte stiamo. A cominciare da Israele. Non a caso Matteo Renzi è in questi giorni già tirato per la giacca dal militantissimo Foglio, suo grande fan ma altrettanto grande fan dei neocon americani e di Israele nella versione falco: dove ti collocherai tu Matteo? Gli chiedono i foglianti. Aspettando come risposta una ferma e dichiarata affermazione di vicinanza, “come quella di Berlusconi nel 2010”.
Una richiesta quasi impossibile nelle condizioni attuali, non importa quanto grande sia il legame di Renzi con lo Stato Ebraico. Così come impossibile sarà dare un chiaro impegno anche all’Iran fra pochi giorni. O ad altri. Ogni impegno romperebbe quell’equilibrio neutrale dei tanti rapporti bilaterali che coltiviamo da sempre: con gli Ucraini e i Russi, con Israeliani e Palestinesi, con il Diavolo e l’Acquasanta.
Arriva così la stagione in cui dovremo fare scelte. E pagarne i prezzi. Come crudamente oggi già simboleggia la cronaca: quattro italiani rapiti nel nostro paese di pertinenza, la Libia, proprio alla vigilia del
viaggio in Israele, non rendono più facile per Matteo Renzi trovare le parole giuste. Ma forse è al fondo di questo viaggio che alla fine, tra parole che mancano e prezzi pagati, troveremo quel che possiamo o vogliamo fare.