Il prossimo venerdì 17 (e poi dici le coincidenze) scade il mandato del direttore generale della Rai Luigi Gubitosi. Il consiglio di amministrazione è in proroga da metà maggio. Tra qualche ora, dunque, il servizio pubblico radiotelevisivo sarà privo di una guida reale. A meno di un anno dalla scadenza della concessione con lo stato, di fronte ad un’amletica discussione interna sui futuri palinsesti, ormai al terzo posto nei ricavi (dopo Sky e Mediaset), mentre è in subbuglio l’intero universo della comunicazione, era legittimo sperare che la discussione sul riassetto dell’azienda si alzasse di livello. Neanche per idea.
Il già brutto -e venato di culture “marchionnesche”- testo del governo è diventato, dopo il passaggio nella commissione di merito del Senato, orribile e inquietante. Una strana specie di autoritarismo consociativo. E’ autoritaria, infatti, la figura dell’amministratore delegato scelto dall’esecutivo (neanche il famoso direttore dell’era del monopolio Ettore Bernabei aveva tanti poteri); è consociativo l’accordicchio con Forza Italia, basato sulle maggioranze dei due terzi per la scelta del presidente (in seno alla commissione parlamentare di vigilanza) e dei direttori di testata (nel consiglio di amministrazione).
La grida “fuori i partiti” si è rivelato uno slogan cinico e ingannevole. Ha vinto, almeno finora, Gasparri, cui si deve la prima delle citate novità con l’emendamento 2.109 e il risultato ottenuto sul secondo, fatto proprio dai relatori Buemi e Ranucci. Il cui mandato a riferire all’aula del Senato è stato votato curiosamente anche dal gruppo di “5Stelle”, che peraltro ha annunciato un’opposizione dura. Come è stato fatto da “Sinistra, ecologia e libertà”, dopo la trasformazione in emendamenti del progetto di legge a firma Fratoianni-Civati alla Camera, e De Petris nel luogo dove è in corso ora il “delitto perfetto”: ai danni delle culture del servizio pubblico-bene comune.
E già, perché di questo si tratta, visto che la Rai non ne uscirà indenne, a meno che l’articolato non cambi sostanzialmente. O venga prudentemente ritirato, considerato che è persino un peggioramento della legge (n.112) dello stesso ex ministro Gasparri del 2004 (sussunta dal Testo unico n.177 dell’anno successivo), uno dei buchi neri della storia repubblicana. E numerosi sono i profili di incostituzionalità. Tra l’altro, l’articolato presenta sì un ridimensionamento della delega totale al governo sul ridisegno dell’apparato prevista in precedenza, ma al prezzo di rendere incerti i confini della missione pubblica e di accostare al canone di abbonamento il finanziamento delle emittenti locali, risarcite (?) così dal maltrattamento in corso ai loro danni.
Ma un capitolo così strategico e delicato non doveva essere parte della riforma dell’editoria, sulla quale peraltro si sono spenti i riflettori? Mah. L’interprete “autentico” –sempre Gasparri- ha dichiarato, poi, che la Rai andrebbe privatizzata, per mandare via davvero i partiti. Voce fuori dal coro, o prefigurazione di una verità scomoda che il fariseismo imperante non vuole ancora rivelare? Forse ha ragione Lacan, quando sottolinea che mancano le parole per dirla tutta, la verità. La timida sinistra del Pd, che pure sulla riforma costituzionale ha mostrato un certo orgoglio, riterrà la Rai una priorità?
“MoveOn” e “Articolo21” hanno invitato alla mobilitazione, come è avvenuto sulla “Buona scuola”. Un’iniziativa tenace e diffusa è indispensabile, appena il testo varcherà l’aula del Senato. Che non passi così, please.