Era un pomeriggio caldo, piena estate. In Senato si susseguivano discussioni animate sui provvedimenti che dovevano essere approvati prima della pausa parlamentare estiva. L’attività frenetica di quelle settimane non aveva però impedito alla Commissione diritti umani, presieduta da Pietro Marcenaro, di programmare una seduta straordinaria con padre Paolo Dall’Oglio.
Avevo lavorato sull’audizione con la cura e la solerzia di sempre. Ma quel 17 luglio 2012 non si trattava solo di lavoro.
Padre Paolo, o meglio Abuna Paolo come lo chiamavano in Siria, era un amico con cui condividevo dal 2007 la passione per questo straordinario paese, sapevo quanto lo avesse ferito essere stato cacciato via dopo 32 anni passati a rendere possibile il dialogo interculturale e interreligioso.
Il suo monastero di San Mosè l’Abissino (Deir Mar Musa al-Habashi), nel deserto a nord di Damasco, era l’esempio di come la fede, nelle sue diversità, potesse unire piuttosto che dividere.
Il suo sguardo, che ricordavo profondo e intenso, era spento e triste.
Dai suoi occhi traspariva la grande amarezza per aver dovuto lasciare il Paese e interrompere la sua missione di promotore del dialogo e di portavoce di chi non ne aveva più una, a costo di esporsi a ritorsioni e aggressioni.
Prima di iniziare l’audizione mi raccontò di quanto lo avesse deluso ricevere la comunicazione di ‘persona non gradita’, nel novembre 2011, e di come avesse tentato fino all’ultimo di rimanere in Siria pur sapendo di rischiare la vita.
Alla fine il 12 giugno dell’anno dopo era stato costretto a tornare in Italia.
Era molto grato per l’attenzione che la Commissione rivolgeva alle immense sofferenze patite dal popolo siriano, che definiva “nostro vicino di casa” sottolineando che proprio “verso i vicini di casa si hanno doveri più importanti”.
Ed era per loro, per restare accanto a chi considerava suoi ‘fratelli’, che era disposto a fare un passo indietro. I suoi doveri ecclesiali erano più importanti della partecipazione alla discussione politica.
Ma non era bastato.
Le sue idee sulla Siria erano in contrasto con quelle espresse sia dalla Chiesa siriana, sia dal Papa. Non aveva, poi, risparmiato critiche nei confronti dell’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino, definita ‘capofila dell’ignavia europea, una ignavia irresponsabile nei confronti della rivolta del popolo siriano’.
Padre Paolo quel 17 luglio iniziò il suo intervento in Senato evidenziando proprio questo elemento, affermando che nell’ambito della discussione riguardante la Siria si tendesse ad una certa smemoratezza. Raccontò di aver partecipato ad una riunione, di fatto clandestina, di oppositori di tutte le provenienze culturali, ideologiche ed anche religiose. Erano stati radunati da un avvocato alauita, quindi vicino al regime per tribù, al quale l’impegno a favore dei diritti umani era costato una prigionia di circa cinque anni. Accanto a lui sedeva un anziano che aveva trascorso nelle carceri del regime ben 23 anni.
“Se si fosse fatta la somma degli anni di carcere comminata ai partecipanti a quell’incontro – disse con un sorriso amaro – si sarebbe facilmente raggiunto il secolo”.
Padre Paolo voleva sottolineare così che il carattere autoritario del regime non era una novità e che le camere di tortura non erano un’invenzione recente, ma parte dell’organizzazione della vita politica, sociale ed economica quale mezzo sistematico per soverchiare ed umiliare l’umanità dei cittadini attraverso lo strapotere dei servizi segreti e di sicurezza.
La denuncia che stavamo ascoltando era stata la causa del suo allontanamento dal luogo che più amava, ma nonostante sapesse che continuare a rivolgere accuse al governo siriano gli avrebbe impedito di tornare a Deir Mar Musa al-Habashi non poteva tacere.
Quella della repressione era stata la costante degli ultimi 40 anni in Siria.
Padre Paolo ripeteva spesso quanto lo avesse deluso il presidente Assad, che durante il primo decennio al potere era visto da molti come colui che avrebbe potuto traghettare il Paese, emancipandolo da una situazione di arretratezza che lo caratterizzava sul piano culturale, istituzionale e dei diritti, per orientarlo verso una maturazione sociale e civile adeguata ad uno Stato moderno ed emancipato.
Questo era il desiderio ed auspicio a cui in tanti avevano creduto ma per concretizzarlo sarebbe stato necessario prosciugare la palude delle mafie criminali, dei commerci di armi, dello strapotere dei servizi segreti, così come della strumentalizzazione degli estremismi musulmani teleguidati per obiettivi di potere.
Il gesuita aveva tracciato un quadro ben chiaro della situazione e auspicava che la comunità internazionale avesse la stessa consapevolezza.
“Non si può immaginare una possibile pacificazione negoziale mettendo sullo stesso piano il regime e la resistenza siriana, il boia e il torturato. Compiremmo un errore. Non è possibile farlo anche moralmente, seppure nel concreto la soluzione non possa che essere negoziale, soprattutto con le forze regionali in campo come l’Iran e la Russia” fu uno dei passaggi più forti e sentiti dell’audizione di padre Paolo cosciente, comunque, che all’interno dei movimenti di opposizione ad Assad erano presenti anche posizioni integraliste.
Credeva fermamente che la missione della comunità internazionale non fosse solo quella di pacificare la Siria, giungendo ad una qualche forma di armistizio, ma che fosse fondamentale giungere a questo risultato attraverso un processo di maturazione democratica.
Era questa allora la grande richiesta dei siriani. E padre Paolo, voce del dialogo, la portava avanti convintamente lasciandoci un grande insegnamento.
Oggi più che mai ci manca la sua capacità di confronto, la sua umanità profonda quanto la sua sete di giustizia e di uguaglianza.
E per questo vogliamo, speriamo, che torni a camminare con noi sul tracciato di pace e di confronto che fino all’ultimo lo ha visto impegnato in prima linea.