In Grecia, oggi, si dice όχι, dall’οὐ (οὐκ davanti a vocale, οὐχ davanti a vocale aspirata, come riportano i manuali di grammatica) dell’antichità. Il “no”, lo stesso che molti segneranno sulle schede il prossimo 5 luglio. Perché la democrazia è pure questo, far scegliere alle persone che dovranno subirle le cose che saranno decise. So che qui da noi, μετα (τον) ποντον – scusate, m’è sfuggito il richiamo alle origini –, al di là del mar Ionio, chiedere un voto e poi cercare di rispettarne l’indicazione appare una cosa folle. Eppure, è quello che Tsipras sta facendo: aveva avuto il mandato di contrastare le politiche della Troika e l’austerità imposta da Bruxelles e ora chiede al suo popolo fin dove è lecito e giusto arrivare.
Come spesso accade, gli Stati che seguirebbero a ruota i destini greci, sono quelli che più degli altri si allineano con i loro aguzzini. È una storia già vissuta: stare con i forti contro i deboli spinge a credersi fra i primi e lontani dagli ultimi, mentre si è appena penultimi. Nonostante ciò, m’ha stupito leggere l’intervista rilasciata martedì 30 giugno da Renzi al direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano. A parte la rassicurazione sul fatto che l’Italia, a parer suo, sarebbe fuori dai rischi (del tipo, #italianostaisereno), a essere davvero illuminanti sono state le parole in cui ha detto: “noi abbiamo fatto la riforma delle pensioni: ma non è che abbiamo tolto le baby pensioni agli italiani per lasciarle ai greci, eh! Noi abbiamo fatto la riforma del lavoro, ma non è che con i nostri soldi alcuni armatori greci possono continuare a non pagare le tasse. Potrei continuare. Aggiungo che se c’è il ‘tana libera tutti’ sulle regole, che succede in Spagna a ottobre? E in Francia tra un anno e mezzo?”.
Da un lato, seguendo un modo di parlare che insegue la pancia degli elettorati e che, dal Circolo polare a Lampedusa, tutti i governi praticano, si cerca di disegnare lo Stato in difficoltà come un Bengodi per nullafacenti: se fosse così, credo ci sarebbe la fila per entrare in, non per andarsene dalla Grecia. Dall’altro, però, quelle affermazioni palesano la vera paura dei governanti europei: l’effetto imitazione.
Si chiede il presidente del Consiglio italiano: ma se i greci dimostrano che un’alternativa è possibile, cosa accadrà domani nel resto del Continente? L’intero impianto dell’Unione si regge sull’assunto indimostrato che non sia possibile un ordine diverso: cosa succederebbe se qualcuno lo mettesse in discussione fin nel profondo? Cosa accadrebbe se una parte provasse a dire, concretamente, “noi vogliamo qualcosa di differente”?
Se ci pensate, un po’ è l’eterna essenza del tragico: la greca Antigone oppone il suo diritto all’autodeterminazione, e al non morire di fame (che non è un modo di dire, se guardate ai dati sanitari di quella nazione e all’incremento della mortalità infantile) al rigido legislatore teutonico Creonte, che cerca di imporre quale vero ipostatizzato la propria visione finanziaria totalmente ideologica. Una tragedia fuori scena, purtroppo, e che qualcuno vorrebbe usare per spezzare le reni a quel popolo, così da educarne i potenziali altri cento.
Ma c’è un però. Anche qualora vincessero i “sì”, la vicenda ellenica dimostrerebbe che è possibile provare a percorrere altre strade. Fossi greco, al referendum di domenica voterei “no”, οὔτοι, con la lingua di Socrate e tutto quel che significa. Metto in conto che possano vincere quelli che la pensano diversamente, e che, in pratica, i cittadini dell’Ellade possano essere sconfitti dalle minacce europee. Tuttavia, anche in quel caso e pure in quella circostanza, penso che, ora come un tempo, possa ripresentarsi la situazione in cui, col suo insegnamento, “Graecia capta ferum victorem cepit”.