Secondo l’Istat costituiscono il 4% degli occupati italiani. Ma hanno spesso stipendi da fame, mentre scandali e populismi gli stanno togliendo anche la legittimazione popolare. Un libro del Gruppo Abele per capire cosa significhi lavorare nel sociale nell’Italia di oggi
TORINO – L’erosione delle risorse destinate al comparto del welfare da una parte. E dall’altra la precarietà, l’incipiente senso di inutilità, e una serie di pregiudizi che tra la popolazione iniziano a farsi sempre più diffusi. Nel mezzo, un filo sottilissimo, su cui migliaia di operatori sociali sono costretti a camminare in equilibrio sempre più precario. Di qui, il titolo del volume appena pubblicato dal Gruppo Abele: “Equilibristi” è una raccolta di saggi scritti da sociologi, operatori e protagonisti di lungo corso del welfare nazionale; che al lettore consegnano una nitida fotografia su cosa davvero significhi lavorare nel sociale nell’Italia del 2015. “Oggi – spiega Andrea Morniroli, curatore del volume ed ex assessore al welfare in Campania – quello del sociale continua ad essere prima di tutto un problema economico: nella sola Napoli, al momento ci sono 6mila posti di lavoro a rischio. E in tutta Italia ormai non si contano più i casi di operatori sociali costretti a fare i camerieri nel fine settimana, perché le cooperative e i consorzi pagano gli stipendi con mesi di ritardo. Il libro nasce da una riflessione sulle conseguenze economiche, sociali e psicologiche che questo stato di cose comporta”.
Secondo gli ultimi dati Istat, i dipendenti del terzo settore in Italia sarebbero più di 680 mila; ai quali bisogna poi aggiungere 270mila esterni e cinquemila lavoratori temporanei. Ne risulta che il sociale dà lavoro al 4 per cento degli occupati italiani: una fetta non trascurabile dell’economia nazionale, che negli ultimi anni ha dovuto però vedersela con i colpi d’accetta della spending review. Tra tagli, razionalizzazioni e piani di rientro sanitario, in un triennio comuni e consorzi socio-assistenziali hanno visto il loro budget ridursi del 90 per cento. E molti operatori sono costretti a vivere con stipendi da fame: “spesso non si arriva a mille euro al mese, – scrive nel volume Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele – pur lavorando 40 ore a settimana. E il regime di precariato legato alle nuove forme contrattuali esclude da diritti fondamentali come ferie, malattia, pensione o maternità”.
Ne viene fuori un sistema che è fiaccato da una crisi identitaria, prima ancora che di liquidità. Scrive ancora Grosso che l’impoverimento “non è solo sul piano salariale o dei diritti: vengono penalizzati anche la qualità e il significato del lavoro svolto”. “L’operatore precario – continua – nell’occuparsi di persone che richiedono assistenza a lungo termine, s’ingaggia in un rapporto che, a causa del suo contratto a scadenza, lascerà un vuoto che altri dovranno poi colmare. Una frase che molti operatori che lavorano “a staffetta” si sentono ripetere è: ‘Mi scusi, ma lei è la quarta assistente sociale che si occupa di me; e non avrei più voglia di raccontare la mia vita’”.
Non bisogna guardare troppo lontano per osservare le concrete ricadute di tutto questo: a Torino, dove il libro è stato stampato, il mese scorso i dipendenti del welfare comunale sono entrati in stato d’agitazione, denunciando una vera e propria epidemiadi esaurimenti nervosi legati a turni massacranti, carenza di personale e blocco del turnover. La definizione corretta sarebbe “sindrome da burn-out”, una forte forma di esaurimento che colpisce soprattutto i professionisti dell’aiuto, ma che dalla giurisprudenza italiana non è ancora riconosciuta. Secondo quanto denunciato dai rappresentati sindacali, a innescare il tracollo degli operatori torinesi sarebbe stata soprattutto una serie di aggressioni, ad opera di cittadini esasperati da un welfare che, in assenza di risorse economiche, non può offrire altro che ascolto e comprensione.
“Il nostro sistema di welfare – puntualizza Chiara Saraceno, tra le più apprezzate sociologhe italiane, che proprio a Torino ha presentato il volume – ha sempre sofferto di una certa marginalità all’interno dell’ordinamento statale. Il problema è che questo deficit di legittimazione oggi si riflette anche sui professionisti del settore; i quali, già costretti a sopravvivere con stipendi da fame, si ritrovano in crisi anche sul piano della motivazione. Si tratta di un meccanismo molto pericoloso, che rischia di incrinare una volta per tutte l’intero sistema. C’è tutto un capitale di competenze e professionalità che rischia di andare perduto per sempre.
Grande spazio nel libro è dedicato proprio all’emergere di queste forme di conflittualità, esasperate dagli scandali legati a Mafia Capitale e dal prepotente ritorno della xenofobia sulla scena politica italiana. “Oggi – spiega Morniroli – chi lavora nel sociale deve vedersela con un populismo dilagante che identifica come ‘nemici’ proprio quei soggetti che per primi sono interessati dal nostro lavoro: stranieri, tossicodipendenti, prostitute e così via. Questo però ci mette di fronte a una sfida, che ora più che mai dev’essere raccolta. Per quanto mi riguarda, non scorderò mai ciò che mi successe nel corso di un’assemblea pubblica in una municipalità di Napoli: un esponente della destra locale cercava di aizzare i presenti contro di me, accusandomi di sperperare denaro pubblico ‘per regalare preservativi alle nigeriane’. Ne venni fuori ricordando loro che molte prostitute saranno pure nigeriane, ma per il 90 per cento i clienti sono italianissimi, ed è alle loro famiglie che salviamo la pelle in questo modo. Oggi gli operatori devono abbandonare uffici, scrivanie e sociologia spicciola, per recuperare il contatto con la strada. Il nostro è un lavoro che si fa per amore del prossimo, e alienarsi la cittadinanza è un passo falso che ora più che mai non possiamo permetterci. Ma per far questo c’è bisogno che il nostro lavoro smetta di essere gratuitamente svilito” (ams)