L’accusa è di quelle forti, che scatena indignazione in chi denuncia da sempre gli interessi sordidi che spesso alimentano i conflitti e le crisi umanitarie dei paesi del Terzo mondo. L’Europa, secondo l’organizzazione non governativa Global Witness, ha finanziato la guerra nella Repubblica Centrafricana. Eppure la notizia, in Italia, è stata ribattuta al massimo da qualche agenzia. Niente di più. Nessun tg, nessun quotidiano ne ha parlato.
Certo, parliamo di una crisi dimenticata, nulla per cui ‘saltare’ dalla sedia come ci si aspetterebbe da qualsiasi direttore o caporedattore animato da spirito di inchiesta.
Non un collega sarà inviato in Centrafrica per approfondire il dossier diffuso dalla ong internazionale. Né racconterà come attraverso gli accordi siglati con i leader dei ribelli nel settore della lavorazione del legno, alcune aziende europee abbiano pagato nel solo 2013 più di 3,4 milioni di euro a gruppi armati accusati di crimini di guerra.
Lo facciamo noi, che attraverso questo sito, abbiamo più volte parlato del conflitto scoppiato due anni e mezzo fa e che ha già causato la morte di oltre 5mila persone e costretto alla fuga più di un milione di sfollati.
Global Witness ha rivelato che subito dopo aver preso il potere con il sanguinoso colpo di Stato a Bangui, emissari Seleka sono stati inviati nelle foreste centrafricane per stringere intese con le società operanti nel Paese che, pur di continuare il proprio business, non hanno esitato a finanziare una feroce campagna di violenze contro la popolazione inerme.
Nel rapporto di cui nessuno parla, l’Europa viene indicata come prima “destinazione del legname del Centrafrica” e questo significa che “gli Stati membri dell’Ue sono venuti meno al loro obbligo legale di tenere fuori dai mercati europei il legno illegale”. In particolare, rileva la ong, “la Francia ha pagato milioni di euro in aiuto allo sviluppo nel settore del legname, in base all’errato presupposto che l’industria del legname del Centrafrica potesse contribuire allo sviluppo locale”.
Non si può che condividere l’amara considerazione di Alexandra Pardal, portavoce di Global Witness che ha definito ‘tragicamente ironico’ che i governi europei investano centinaia di milioni di euro in operazioni militari e di peacekeeping in Centrafrica, mentre quegli stessi governi non siano riusciti a tenere lontano dai mercati europei il legno illegale. Fino a quando l’Europa non cesserà di sostenere l’industria del legname – ha detto Pardal – i consumatori europei rischiano di alimentare, senza volere, un conflitto che le loro forze armate sono chiamate a far cessare”.
Da quando è in atto una vera e propria guerra civile nel nome dell’Islam, che vede i Seleka sempre più agguerriti, i massacri si sono intensificati.
La situazione si è ulteriormente aggravata da quando è stata disciolta la milizia che aveva favorito il golpe, composta per lo più da criminali comuni e mercenari provenienti da Ciad e Sudan, protagonista di razzie ai danni dei cittadini.
Non sono stati risparmiati neanche i quartieri abitati in prevalenza da musulmani, che teoricamente l’Alleanza afferma di rappresentare.
E stata un’escalation di violenze, stupri ed esecuzioni sommarie.
Per opporsi a questi soprusi sono nati i gruppi degli Anti-Balaka, letteralmente ‘anti-machete’. Ben presto anche gli avversari si sono resi responsabili di crimini simili a quelli attribuiti ai Seleka.
Nel solo villaggio di Bossemptélé in poche ore oltre 100 musulmani sono stati trucidati e gettati in una fossa comune.
Che la situazione sia andata degenerando se ne accorta, in colpevole ritardo, anche l’Onu, che ha minacciato sanzioni, ottenendo in cambio, nel luglio 2013, un accordo sottoscritto da Seleka e Anti-Balaka e controfirmato dalla presidente Samba-Panza.
Un blocco delle ostilità che ha portato alla nomina di Mahamat Kamoun a capo del governo, il primo musulmano nella storia del Paese ad avere questo ruolo.
I Seleka, tuttavia, hanno contestato la scelta, affermando di non sentirsi rappresentati. Ciononostante, Kamoun ha nominato diversi membri del movimento, poi espulsi dall’Alleanza stessa.
Nel frattempo gli ex ribelli della coalizione, disciolta nel settembre 2013 da Djotodia nel suo breve mandato da presidente, e pastori dell’etnia nomade Fulani (sempre fedeli all’Islam) si sono spostati nell’entroterra attaccando diversi villaggi nel nord del Paese. A tutto ciò va aggiunto che il numero di operatori umanitari vittime di aggressioni, rapiti o feriti gravemente ha raggiunto il livello più alto mai registrato nella sua storia post indipendenza, con una cinquantina di incidenti negli ultimi dodici mesi.
La Repubblica Centrafricana ospita oggi oltre 2mila operatori umanitari che operano e lavorano per proteggere e portare assistenza alle persone più vulnerabili.
A tutto ciò la comunità internazionale ha risposto con il dispiegamento di un modesto contingente nel quadro di una missione delle Nazioni Unite a cui anche l’Italia ha dato il suo contributo, con l’invio di circa cinquanta militari dell’Esercito che si sono integrati nella forza multinazionale.
Nonostante questo il conflitto non sembra destinato a esaurirsi presto e appare, ormai, fuori da ogni controllo.