Diceva Enzo Biagi: “Ho girato il mondo e quando mi hanno chiesto se fossi orgoglioso di essere italiano, ho risposto che ero contento di essere italiano per l’umanità della mia gente che si rivela quando le cose vanno male: noi siamo un grande popolo nei momenti difficili”. È evidente che i suoi riferimenti morali e culturali fossero ispirati dall’epopea giovanile della Resistenza: il nostro “secondo Risorgimento”, come ebbe a definirlo il presidente Ciampi, i giorni in cui migliaia di connazionali, a cominciare da tanti ragazzi in alcuni casi nemmeno maggiorenni, scelsero di salire sui monti e di combattere nelle brigate partigiane per riscattare la libertà e la dignità di un Paese distrutto. E no, non è solo vuota retorica o uno stanco ritornello di cui la sinistra si serve ciclicamente per tentare di coprire il vuoto di idee in cui versa attualmente: è storia ed è, senz’altro, la nostra pagina più bella, quella di cui personalmente vado più orgoglioso.
Tuttavia, quest’analisi deve indurci a riflettere anche su una costante nel carattere del nostro popolo della quale, al contrario, c’è assai poco di cui andare fieri: è vero, infatti, che noi siamo grandi nei momenti difficili ma è altrettanto vero, purtroppo, che riusciamo ad essere alquanto miserabili quando le cose vanno bene o, comunque, ci appaiono ancora sopportabili.
Volendo compiere un excursus storico, partiamo proprio dai giorni della Resistenza: ci vollero la fame, la miseria nera, le bombe alleate su San Lorenzo e l’armistizio firmato a Cassibile perché gli italiani aprissero gli occhi dopo averli tenuti chiusi per vent’anni, accettando supinamente la barbarie della dittatura fascista, lo smantellamento dello Statuto Albertino, l’esautorazione delle istituzioni, la reclusione e il confino di alcuni fra i più raffinati intellettuali ed esponenti politici, colpevoli unicamente di non essersi genuflessi di fronte al regime, lo scempio delle Leggi razziali e il sostegno ai crimini nazisti, campi di concentramento inclusi, con buona pace di chi ancora crede alla favola che nessuno sapesse, vedesse o sentisse.
Non solo: perché le coscienze della collettività si risvegliassero, furono necessarie anche l’ignominiosa fuga dei Savoia a Brindisi, lasciando Roma nelle mani di Kappler, l’eccidio di Cefalonia e l’inizio delle rappresaglie e dei rastrellamenti ad opera di nazisti e repubblichini, con la Penisola divisa in due fra Linea Gotica e Linea Gustav, ormai terra di nessuno, priva di autorità, modelli, punti di riferimento.
Fu una pagina eroica che tuttora merita di essere studiata e ricordata con ammirazione e rispetto, ma fu anche il frutto di un ventennio di pagine vergognose, di omissioni, di silenzi, di delazioni e connivenze d’ogni sorta, di asservimenti più o meno volontari e di convinzioni del tutto sbagliate, fra cui quella, assurda ma ancora ben radicata nel nostro costume nazionale, di poter rinunciare a qualche diritto e a una dose crescente di libertà in cambio di questa chimera devastante chiamata “stabilità”.
E non andò poi tanto meglio, vent’anni dopo, alla nascita del centrosinistra, per la quale, oltre alla fine del periodo maccartista negli Stati Uniti, col conseguente avvento di Kennedy alla Casa Bianca, fu necessaria l’estate di sangue del luglio del ’60, con i “dieci poveri inutili morti” – tanto per citare ancora Biagi – che sconvolsero Genova e Reggio Emilia e costrinsero alle dimissioni il presidente Tambroni e il suo pessimo governo con l’appoggio esterno del MSI.
E anche la proposta berlingueriana del “compromesso storico” nacque sull’onda di una serie di tragedie: il golpe cileno che destituì Allende nel settembre del ’73, certo, ma, a livello nazionale, sarebbe grave dimenticare la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e quella di piazza della Loggia del 28 maggio 1974, l’esplosione del treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno e l’avvento del terrorismo sanguinario, rosso e nero, che negli anni successivi avrebbe provocato drammi come il sequestro Moro e la strage della stazione di Bologna di cui quest’anno ricorre il trentacinquesimo anniversario.
Per quanto riguarda la lotta al malaffare e ad alcune pessime pratiche politiche, invece, non bastarono certo le denunce di Berlinguer , Andreatta e del presidente Mattarella: per scoperchiare e tentare di fare pulizia nel verminaio di Tangentopoli dovette intervenire il coraggioso pool di Mani Pulite, guidato dal giudice Borrelli, che fra il ’92 e il ’94 segnò, di fatto, la fine della Prima Repubblica, naufragata fra scandali, arresti, moti di indignazione popolare senza precedenti e, quel che è peggio, attraversata da rivoli di sangue e ancora stragi: Capaci e via D’Amelio a Palermo, le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a Roma, via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Firenze, con lo sterminio della famiglia Nencioni che fugò ogni residuo dubbio sull’effettiva natura del cancro mafioso.
Peccato che non ne uscimmo con una reazione di popolo e di idee, partiti rinnovati e ricostruiti, ideologie moderne e al passo coi tempi e una ritrovata credibilità internazionale: ne uscimmo con l’anti-politica di governo berlusconiana, un misto di illusionismo e consumismo sfrenato, liberismo all’amatriciana e balle a raffica, che prevalse sulle divisioni di un centrosinistra incapace di fare fronte comune, di comprendere la pericolosità di ciò che stava avvenendo, di leggere il momento storico e comportarsi di conseguenza, commettendo l’errore imperdonabile di non capire per tempo che il berlusconismo non era tanto una teoria politica quanto un modo di essere, un abito mentale, diremmo quasi uno stile di vita, destinato a rivoluzionare per sempre il carattere nazionale e a intaccare in profondità il nostro modo di pensare, di ragionare e di rapportarci alle singole questioni, trasformando in un’accettata normalità un’assoluta anomalia, basata su un conflitto d’interessi che ha finito con lo sfigurare il già fragile e provato tessuto sociale nazionale e col renderci ostaggio di una politica violenta e gridata, sangue e arena, sempre più vittima di una divisione fittizia che, in realtà, col passare degli anni, si è andata trasformando in un consociativismo spinto e onnicomprensivo, letale per la tenuta stessa della democrazia e delle istituzioni.
Certo, venne la stagione dell’Ulivo e molti di noi si illusero che l’“anomalia berlusconiana” fosse giunta prematuramente al capolinea, ma durò poco: il tempo di entrare nell’euro e tornarono contrasti e divisioni e, con essi, tre governi sbagliati e litigiosi, fallimentari e, nella sostanza, innervati da pezzi di centrodestra che finirono con lo snaturare del tutto il progetto originario dell’Ulivo, conducendo il centrosinistra alla disfatta del 2001, da cui sono scaturite tutte le calamità del decennio successivo.
E persino il PD, da noi un tempo salutato come la più grande innovazione degli ultimi vent’anni, fu il frutto della vittoria mutilata di Prodi nel 2006 (figlia anche dell’assurda decisione dei vertici di DS e Margherita di correre divisi al Senato), salvo poi imbattersi nella disfatta elettorale del 2008 ed esaurirsi, dopo quattro anni di generosa segreteria Bersani, nella “non vittoria” del 25 febbraio 2013.
Da questi disastri a catena, va detto che sono nate associazioni e movimenti davanti ai quali è doveroso togliersi il cappello: La Rete di Orlando negli anni delle stragi di Mafia, il popolo dei Girotondi e l’associazione Libertà e Giustizia ai tempi della cacciata dalla RAI di Biagi, Santoro e Luttazzi, il Move On, il Popolo Viola; e ancora i ragazzi delle Agende Rosse di Borsellino, i gruppi ambientalisti, tante splendide esperienze di volontariato, i comitati referendari del 2011 in difesa dell’acqua pubblica e contro nucleare e legittimo impedimento, l’esperienza del Teatro Valle, i gruppi sorti in difesa dei beni comuni e, infine, il Movimento 5 Stelle, la cui novità rispetto ai soggetti menzionati in precedenza sta nel fatto che loro hanno avuto il coraggio di presentarsi in prima persona alle elezioni, conseguendo dapprima discreti risultati a livello locale e poi un risultato insperato e da nessuno pronosticato alle Politiche del 2013.
E qui veniamo alla parte conclusiva di questa cavalcata storica, affrontando un’attualità che ci sta particolarmente a cuore. Perché gli stellini, dati in costante crescita nei sondaggi, rappresentano ormai una compagine strutturale del nostro sistema politico: chi pensasse di riassorbirli andrebbe incontro ad amare delusioni, per il semplice motivo che gran parte delle loro rivendicazioni sono sacrosante e condivise dalla maggior parte della popolazione, al netto di alcuni tratti populistici che farebbero bene ad espellere rapidamente dal proprio programma, in quanto dannosi, inattuabili e, in alcuni casi, addirittura in contrasto con quei princìpi costituzionali che hanno mirabilmente difeso in Parlamento in questi mesi di assalto alla Carta del ’48.
Avendoli conosciuti da vicino, posso confermare l’impressione che ebbi quando decisi finalmente di andarli a scoprire: tolto un esiguo gruppetto di esagitati, tendenti, in parte, al doroteismo e, in parte, a un savonarolismo duropurista senz’anima né futuro, stiamo parlando di una miniera d’oro, con all’interno ragazzi splendidi, amministratori onesti e preparati, gente che in quei movimenti di resistenza civica ha militato e da lì ha tratto una rabbia costruttiva e propositiva alla quale dobbiamo dire grazie, perché è solo per merito di questa passione civile senza confini, capace di sfidare ogni ostacolo e ogni derisione, se nessuno si è ancora azzardato a mettere seriamente in discussione la prima parte della Costituzione.
Ciò che domando loro, però, è se alla luce della nostra storia patria, non avvertano il senso della tragedia nella quale siamo immersi. Perché è vero che non c’è Kappler e non ci saranno le Ardeatine, che nessuno ordinerà di sparare sui manifestanti, che non verranno messe bombe né fatti saltare in aria treni, è vero che è finita la Guerra fredda e che anche la mafia non dà l’impressione di voler intraprendere una nuova stagione stragista (si spera); tuttavia, è altrettanto vero che il giudice Nino Di Matteo è costretto a vivere blindato, sottoposto a continue minacce di morte, che della trattativa Stato-mafia del ’92-’93 si sa ancora troppo poco, per non dire quasi niente, che sulle stragi precedenti i segreti e i non detti sono innumerevoli, che decine e decine di giornalisti vengono sottoposti a querele temerarie continue, che scandali, corruzione e malaffare infestano il nostro Paese da Nord a Sud, che la politica non è mai stata così fragile e screditata e che questo governo è del tutto inadeguato a far fronte sia alle emergenze nazionali sia alle crescenti emergenze internazionali, a causa della sua eccessiva eterogeneità e della sua totale mancanza di “pensieri lunghi” e orizzonti che vadano al di là delle prossime scadenze elettorali. E poiché è probabile che un pezzo di PD, pur avendo ingoiato già un’infinita quantità di schifezze, non potrà sopportare pure l’imminente ingresso in maggioranza di Verdini, dei cosentiniani, dei cuffariani e, forse, addirittura dei tosiani, è probabile, dicevamo, che nella primavera del 2016 si torni alle urne.
Al che gli schieramenti saranno chiarissimi: da una parte il lepenismo salvusconiano, col suo corredo di ruspe, malesseri locali, frustrazioni, rabbie ancestrali e ricette fantasiose e inapplicabili; dall’altra il duo Verdenzi (Verdini e Renzi), più Alfano e qualche altro eroe dei nostri tempi, in un minestrone ultra-centrista il cui unico collante era e sarà sempre la difesa della poltrona. Ai lati, una sinistra rinnovata e credibile ma troppo piccola per contare e un movimento pulito e ricco di persone di valore ma troppo isolato per poter concorrere al ballottaggio, dunque schiacciato dalle mirabolanti promesse dei contendenti e dalla logica aberrante ma sempre in voga del “voto utile”.
E allora, cari amici stellini che volete combattere da soli contro il mondo e cari amici e compagni della sinistra che avete detto per anni (al pari del sottoscritto) peste e corna di gente che, sostanzialmente, la pensa come noi quasi su tutto, vogliamo aspettare l’ennesimo diluvio, sia pur gentile, della storia prima di tornare ad azionare il cervello e rientrare in un contesto di razionalità politica e culturale o provvediamo per tempo? Provvediamo a incontrarci almeno sui singoli temi per conoscerci e cominciare a capirci o ci abbandoniamo a chiusure identitarie tanto inutili quanto dannose e anacronistiche? Proviamo a costruire insieme un’identità e un’ideologia comuni o spianiamo la strada al populismo governista e al populismo anti-sistema dei campioni poc’anzi chiamati in causa?
In poche parole, è mai possibile che alle nostre latitudini bisogna sempre giungere sull’orlo del precipizio, e talvolta caderci dentro, prima di dar vita a una ribellione sensata, pacifica e nell’interesse della collettività? Abbiamo un mese e poco più per decidere se continuare a farci scegliere o tornare ad essere protagonisti del nostro destino: cerchiamo, per una volta, di non sprecare l’ennesima, forse ultima, occasione che ci viene offerta.