L’intervista. Viaggio nella vita di Paolo e Vittorio Taviani

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ROMA – I fratelli Paolo e Vittorio Taviani sono tra i registi più importanti che l’Italia abbia espresso. Le loro opere e la loro poetica, pur non andando mai alla rincorsa dell’audience, hanno raggiunto ed emozionato milioni di persone in tutto il mondo.

Di Eugenio Murrali

La loro lunga carriera cinematografica, ispirata da una continua tensione alla ricerca, ha conosciuto numerosi successi. Tra di essi vale la pena ricordare: la Palma d’oro a Cannes nel 1977 per Padre padrone, il Grand prix della giuria di Cannes per  La notte di San Lorenzo nel 1982, il Leone d’oro alla carriera (Mostra internazionale del Cinema di Venezia) nel 1986, l’Orso d’oro a Berlino per Cesare deve morire nel 2012 e ancora molti Nastri d’argento e David di Donatello. Il loro film più recente, Maraviglioso Boccaccio, ha aperto quest’anno il Festival di Pechino ed è stato distribuito in Cina in 3.000 sale.

Siete nati in Toscana, abitate a Roma, avete la residenza estiva in Sicilia. Qual è la geografia della vostra vita?

Siamo figli dei luoghi della nostra identità. San Miniato al Tedesco, in provincia di Pisa, ci ha visti nascere, in quella Toscana dove si può supporre che il rapporto tra l’uomo e la natura abbia trovato un suo equilibrio: la bellezza delle colline toscane non è solo un fatto di natura, l’uomo è andato incontro alle colline e le ha modellate. Quello che è il caos della realtà sembra trovare nella Toscana un suo momento di quiete.

Questa Toscana feconda e umanistica ha avuto un suo ruolo nel concepimento dei vostri film?
Un giorno, io e Paolo, ci siamo trovati a un funerale di una persona a cui, come dire, non ci sentivamo molto legati. La liturgia si svolgeva a San Miniato al Monte, sopra Firenze. Non entrammo. Rimanemmo seduti su un gradino della bella scalinata, davanti alla facciata romanica della chiesa . Guardando quella facciata capimmo che Sotto il segno dello scorpione (1969 n.d.r.), un film d’avanguardia che avevamo girato da poco, nasceva da lì. La facciata, fatta di queste geometrie verdi e bianche, da una parte rimanda alla matematica, dall’altra al mistero. Da un lato senti che la geometria è una delle basi della conoscenza, dall’altra, da come le lastre sono accostate, emerge il segreto della nostra presenza su questa terra. C’è dell’autosuggestione in tutto questo, certo, ma Sotto il segno dello scorpione viene da lì.

La Toscana vi ha poi ispirato altre opere.

In Toscana abbiamo girato La notte di San Lorenzo (1982 n.d.r.). In questo film ci siamo identificati nella bambina che racconta e esprime una nostra esperienza fondamentale, vissuta nella bellezza e nella tragedia della guerra del ’44, su quelle colline, nella nostra cittadina di San Miniato al Tedesco, che è così Toscana e che i nazisti hanno fatto saltare in aria. Nel  film si intrecciano memoria e fantasia.

Un’altra regione molto importante per il vostro percorso è la Sicilia, la terra di Pirandello, dalle cui novelle è nato uno dei vostri capolavori, il film Kaos, del 1984?

Anche della Sicilia ci sentiamo figli. L’abbiamo scoperta facendo dei documentari, in anni molto lontani abbiamo girato tutta l’isola. Era una Sicilia d’altri tempi. Se tu arrivavi in un paese e parlavi con gli abitanti, non soltanto ti rendevi conto che possedevano un vocabolario diverso dal tuo, ma anche le loro conoscenze erano del tutto differenti dalle nostre. In Sicilia abbiamo girato il nostro primo film: qui  abbiamo trovato l’eco dell’epica.“La Sicilia, questo deserto di fecondità”, diceva Goethe. Su questi spazi  puoi davvero immaginare la tragedia greca. Si sa che i nostri tragici  sono stati lì, Eschilo vi è morto. La Sicilia, anche per questa assurda natura degli uomini, era una terra in cui i sentimenti, i valori, gli atteggiamenti, le memorie erano, anzi sono, disegnate con violenza.

Dunque in Sicilia convivono la tragedia e l’epica, due elementi molto importanti della vostra poetica?
L’eco dell’epica – il  modello per noi imprescindibile è l’Iliade –  ci ha legato a questa terra ( abbiamo anche messo  casa nelle isole eolie, che abbiamo conosciuto in tempi quasi selvatici – niente farmacia, niente benzina… ). A Sciara, vicino a Palermo, abbiamo girato quel nostro primo film, Un uomo da bruciare (1962 n.d.r.): la storia vera di un sindacalista, Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia, perché, negli anni Cinquanta, aveva portato i compagni contadini all’occupazione delle terre incolte del feudo: momenti eroici in cui si moriva in nome di una scelta di vita. Costruendo il  film ci siamo ispirati a lui, ma in qualche modo, come dire, in lui ci siamo proiettati, identificandoci nel desiderio dell’uomo di esprimere al massimo se stesso, inseguendo un risultato che avesse  un valore anche di carattere collettivo. Ma rifiutavamo l’immagine dell’eroe come ce lo proponeva allora una certa sinistra sovieticheggiante. I suoi errori, le sue  oscurità sono profonde quanto le sue qualità, le sue illuminazioni: da questa contraddizione la forza della sua azione.

Siete figli quindi della terra toscana e di quella siciliana, che poi sono l’origine della nostra letteratura, però in fondo avete scelto di vivere nel Lazio.

E’ la terza regione di cui ci sentiamo veramente figli. Forse non è una regione, piuttosto è una città: Roma. Noi che siamo per la severità classica accettiamo tuttavia questa grande puttana barocca, che non corrisponde al nostro modo stilistico, ma che non smette di affascinarci. Roma è poi la città in cui abbiamo potuto realizzare il progetto fondamentale della nostra vita, cresciuto in noi da quando, ragazzi, vedemmo Paisà di Rossellini e sapemmo che il linguaggio del cinema sarebbe stato il nostro.

Perché questa affinità, cosa evocava in voi quel film, ritratto di tempi dolorosi e eroici?
Paisà raccontava quella guerra che noi avevamo vissuto pochi anni prima: gli episodi erano diversi, ma la realtà, i sentimenti, i valori, i lutti e le vittorie erano gli stessi. Ci siamo accorti che, vedendo quel film, attraverso quel linguaggio, riuscivamo a capire di più l’esperienza che noi stessi avevamo vissuto. Quando uscimmo dalla sala – sembra una cosa di facile sapore romantico (e tu, ti prego, non mettere il punto esclamativo alla frase che segue) – ci  dicemmo: “Cinema, o morte”.

Da quel giorno come avete iniziato a rispondere alla sconvolgente scoperta di un così forte temperamento artistico, di una vocazione irrinunciabile?

Noi veniamo da una famiglia borghese: nostro padre era un bravo avvocato, con uno studio avviato. La logica familiare diceva per noi due: facoltà di legge. Noi due: no, cinema.  A quei tempi lasciare la provincia per venire a Roma non era facile, anzi, era molto difficile. Intanto da San Miniato ci eravamo  trasferiti a Pisa, perché la nostra casa –  la casa dell’ “antifascista” di San Miniato –  per prima fu fatta saltare in aria  dai nazifascisti. Ma con San Miniato il nostro rapporto non  si è mai spezzato, anche se  il parroco, quando seppe che i due figli maschi lasciavano Pisa e partivano per Roma, per la città del cinema, andava in giro dicendo: “Povero avvocato Taviani! Quella persona così onorata! Pensate, i figli sono partiti per Roma per andare a lavorare al suono del can-can”.

Nientemeno. E l’approdo a Roma, la città dell’un tempo gloriosa Cinecittà, come lo ricordate?
Come Balzac fa dire a Eugène de Rastignac, il protagonista di Père Goriot, quando arriva dalla provincia sulla collina di Parigi: “À nous deux, maintenant!”. Così è stato per noi a Roma. Abbiamo vissuto sino in fondo  il dramma di riuscire a fare un lavoro che nessuno ti vuol far fare. Era difficile ieri, lo è oggi per i giovani che lottano per il loro primo film.

C’è stato qualcuno che avete considerato un Maestro e se c’è stato quale importanza ha avuto nelle vostre scelte di registi e di uomini?

Rossellini è stato il nostro Maestro. Tuttavia non ci siamo messi a studiare solo il suo linguaggio. Come per molti, un altro padre amato è stato il primo De Sica.

Anche De Sica?

Quando Ladri di biciclette uscì, fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo  visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio. Poi, a una nuova visione, il controllo: il cinquanta per cento l’avevamo centrato, l’altro cinquanta assolutamente no. Per la  sequenza in cui il bambino,  seduto sul marciapiede della strada, vede improvvisamente il padre che ha rubato la bicicletta e che ora viene schiaffeggiato dai passanti incattiviti, noi scrivemmo: “Lungo carrello sul bambino che guarda sconvolto”. Verifica impietosa: il carrello è brevissimo. Impietosa, ma rivelatrice della centralità del montaggio, dove il tempo non  ha la cadenza del reale. Inserito tra due campi larghi, quel breve carrello in primo piano, provoca una emozione lunghissima.

Potreste provare a definire questo linguaggio che avete assorbito e rielaborato a vostro modo?
Mentre stavamo girando il nostro primo film, Un uomo da bruciare, il critico dell’Espresso ci chiese: “In quale stile girate?”. Rispondemmo con innocenza che per noi non si poneva un problema di stile: giravamo nell’unico modo che avevamo interiorizzato, senza averlo classificato né catalogato. Con il passar del tempo, alla stessa domanda potemmo dare naturalmente risposte più articolate. Grazie in parte anche alla pubblicità: può sembrare un paradosso, ma la vita procede nell’incrocio tra volontà, progetto, caso e fortuna. E qui è necessario fare un piccolo inciso, che riguarda il nostro mestiere di cineasti, pubblicità compresa. Nei lontani anni Sessanta avemmo la fortuna di essere tra i primi registi di un certo nome a essere chiamati per i “Caroselli”, storielle televisive di più minuti, pagate come si deve: hanno risolto il problema della nostra sopravvivenza economica, lasciandoci liberi di affrontare le mille difficoltà produttive per realizzare – magari a paga zero – solo quei film che in quel momento della nostra vita ci esprimevano. Ci sbizzarrimmo. Girammo quelle storielle, le più varie, in tutti gli stili possibili e immaginabili: quello francese romantico, quello americano western e poliziesco, quello inglese sofisticato e via dicendo. Ce ne appropriammo con allegria, perchè fare cinema è sempre un’avventura. Ma i nostri film li abbiamo girati, e sempre  li gireremo, a modo nostro.

Torniamo ai maestri. Ci sono stati, anche idealmente, dei grandi spiriti della storia capaci di suggerirvi un percorso da intraprendere?

Quando abbiamo scoperto il cinema, abbiamo azzerato tutti i nostri amori di carattere musicale, letterario, pittorico. Volevamo solo cinema, cinema, cinema. Una volta che quell’universo audiovisivo divenne in profondità  anche il nostro, sentimmo il bisogno di recuperare i vecchi Maestri. È facile immaginarli: Omero, Tolstoj, Goethe, Mozart, Shakespeare… Non avremmo mai potuto vivere senza Guerra e pace, per esempio. Abbiamo osato dirlo anche in aula universitaria in un incontro con i maestri della letteratura: un assurdo certo, e anche un po’ infantile, ma soltanto per esprimere la sensazione che tra il ritmo del nostro vivere quotidiano e il ritmo delle pagine tolstoiane ci sia una continuità che azzera la mediazione del linguaggio. I letterati ci hanno guardato con simpatia…

Nel vostro cinema è fondamentale anche la musica. Perché offrite una cura tanto profonda a questo aspetto?

Nel nostro cinema la musica ha  sempre avuto un ruolo da protagonista. Per Pasolini il riferimento è la pittura, per Visconti la letteratura, per noi attrice principale è la musica. Anche perché ci viene da pensare che il linguaggio del cinema è la continuazione – ideale, naturalmente, e con tutte le  sue  contraddizioni – del grande linguaggio del melodramma italiano. E non abbiamo remore a dire che in questi ultimi mille anni di cultura europea, l’Italia segna tre momenti  fondamentali: il rinascimento, il melodramma e il neorealismo. Tre momenti che appartengono al mondo.

Però in fondo anche voi siete stati spesso ispirati dalla letteratura. Si potrebbero citare molti dei vostri film, ma volendone richiamare uno per tutti, penso a Le affinità elettive, del 1996.
Di Goethe avevamo sempre diffidato. Poi un amico ci consigliò di leggere Poesia e verità, che è l’autobiografia incompleta di Goethe. La  leggemmo e scoprimmo che Wolfango era un fratello. Non saliva le scale per raggiungere l’empireo, no, stava giù con noi, vivendo la sua vita quotidiana di bambino, di giovane, con le sue debolezze, le sue forze: esprimeva con limpidità l’idea che la vita vada rispettata anche nelle sue contraddizioni e nelle sue miserie.

Quindi vi ha affascinato il suo lato più vicino al problema dell’uomo e del suo rapporto con il mondo?
Noi avevamo mutuato da un altro nostro maestro, il filosofo Sebastiano Timpanaro, la cognizione del contrasto tra il movimento della natura e il movimento della Storia: il primo è lento, quasi impercettibile, l’altro ti coinvolge nel suo ritmo frenetico, sempre mutante. Ma tu sei anche l’uomo biologico, identico attraverso il tempo, perché immutabili, o quasi, sono sentimenti come la paura della morte o il dolore per la morte altrui, come l’impulso primario all’amore o alla violenza del possesso.

In questo senso Le affinità elettive vi hanno offerto un ottimo banco di prova.
Incontriamo questi quattro personaggi, due uomini e due donne, che organizzano razionalmente i loro rapporti, ma vengono contraddetti, e dispersi, dalla energia segreta della natura. Goethe ci rivela il senso della relatività, che viene a confermare questa nostra radicata convinzione: noi crediamo nell’uomo, nella sua fantasia, nella sua capacità creativa. In San Michele aveva un gallo(1972, n.d.r. ) il nostro protagonista Giulio, anarchico rivoluzionario, rinchiuso nella cella di segregazione per anni, escluso dalla vita, con la volontà e la fantasia ricrea la vita. Crediamo in questo nostro personaggio e ci ha emozionato rappresentarlo. È un vincitore. Ma crediamo anche che la forza dell’uomo sia  infinitamente minore rispetto alla forza misteriosa della natura. Siamo tutti quanti immersi in questa contraddizione. Da qui forse il dolore del vivere. E l’unica soluzione per il nostro magnifico prigioniero, quando improvvisamente si trova sperso nell’immensità della laguna, si rivela il suicidio, come disperata riaffermazione di sé.

Nel vostro cinema ha avuto spazio la nostra Storia – il Risorgimento, la Resistenza – ma anche la Storia straniera. Mi riferisco al genocidio degli armeni narrato nel filmLa masseria delle allodole. Cosa riesce a richiamarvi con più insistenza al dovere di interpretare la Storia? Le contraddizioni, le ingiustizie, la voce ammutolita dei vinti?

Al liceo abbiamo imparato che Aristotele definiva l’uomo zoòn politicòn: si vive la propria individualità, ma poi, inevitabilmente, stai in mezzo agli altri e vivi con gli altri. Insieme ad alcuni di loro – qui le tue scelte – contro alcuni di loro. Questo significa essere coinvolti nella storia del proprio popolo e in certi momenti in quella di altri popoli. La masseria delle allodole nasce così: in un  normale giorno del 1996 noi stavamo in famiglia, mentre nella stanza accanto la radio comunicava che al di là dell’Adriatico il genocidio continuava. In ritardo forse, ma con raddoppiata intensità, ci raggiunse una scossa elettrica: ma come si può vivere, e magari tra un po’ andare a  pranzo, mentre a poche decine di chilometri da questa stanza altri uomini come noi vivono l’orrore del genocidio? Quando per caso ci capitò in mano il libro della Arslan – Per caso? – sentimmo che il nostro nuovo film sarebbe partito da lì, dal genocidio armeno, vissuto dalla famiglia della autrice, da quella tragedia oscena e rimossa dall’Europa, che ridestava in noi echi mai spenti della nostra sanguinosa estate del ’44.

Vi è mai capitato di essere profetici nei vostri film?

Come puoi fare una domanda così strampalata e imbarazzante? Prendiamola sullo scherzo e allora possiamo ammettere che di almeno due nostri film qualcuno, soprattutto straniero, ha scritto in questo senso.

Posso almeno sapere a quali film alludiate?

Ma sì, il discorso vale per molti altri. Quando avvennero i fatti di Ungheria, qualcosa si ruppe. Eravamo veri comunisti: avevamo creduto che nell’Unione Sovietica l’utopia si fosse realizzata nella libertà e nella eguaglianza. Scoprimmo che lo stalinismo aveva trasformato l’utopia in una beffa e che il partito comunista italiano ce lo aveva nascosto. Uscimmo dal partito. Fu un trauma collettivo. Niente c’era da rinnegare delle nostre convinzioni, ne eravamo consapevoli e orgogliosi, l’orizzonte rosso rimaneva il nostro, ma sapevamo anche che Marx  per primo ci avrebbe detto: “Ragazzi, vi siete scordati il principio fondamentale: la Storia è continua, traumatica trasformazione. La Storia non la si vive, la si inventa”. Il mondo della sinistra era divenuto invece stagnante come una palude, gelido come una lastra di ghiaccio. Andava spezzata. Il nostro Sovversivi (1967 n.d.r.) è fatto delle schegge di quella lastra spezzata: intorno alla morte del capo, di Togliatti – fatto epocale e collettivo – si muovono i nostri personaggi, uomini e donne della sinistra, ognuno con il suo dramma personale, le sue contraddizioni, rappresentate da noi con spregiudicatezza, o meglio, con impazienza iconoclasta.

L’organizzatore generale del film, comunista e nostro grande amico, ci disse cupo: « Io non posso collaborare a un film, dove il protagonista davanti alla bara di Togliatti mormora: “Era l’ora!” ».
Così come quando seguimmo l’uscita del film dalla Sicilia al Piemonte ci rendemmo conto che qualcosa stava per accadere, le reazioni dei giovani si rivelavano improvvisamente le stesse: provocazione, coinvolgimento, rifiuto, passione, e anche insulti.Tornando a Roma dicemmo ai nostri amici: la tempesta sta per arrivare. Arrivò. È quello che noi abbiamo poi raccontato con Sotto il segno dello scorpione.
Gli americani invece, quando hanno visto, in ritardo, Allonsanfan (1974 n.d.r), hanno scritto: “Voi avete raccontato le brigate rosse”. Dimenticavano che noi avevamo girato  il film molto prima di quegli oscuri anni di piombo. Intuizione, certo, ma per essere profeti ci vuole ben altro…

Venendo all’aspetto pratico della vostra fraternità artistica, vorrei chiedervi in che modo dialoghiate e come facciate a capire quando un soggetto chieda di essere sviluppato?
Tutte le mattine ci vediamo. Ora forse un po’ meno, perché l’età si fa sentire, ma i nostri luoghi di incontro sono  stati, sono, Villa Pamphilj, Villa Sciarra, le nostre case. Camminando con i nostri cani si parla di tutto: grandi cose, piccole cose, il sublime e il volgare, le cronache e la fantasia, il di fuori e il di dentro. Pulsioni diverse, da cui a un certo momento se ne enuclea una in particolare. La chiamiamo “il nostro incubo notturno”, cioè  quella  domanda  che in quel momento della vita ti fai e vorresti avere una risposta che non arriva.

Pensate che fare cinema aiuti a trovare la soluzione a questi profondi rovelli?
Forse facendo un film non si trova una risposta alle nostre domande, ma almeno le butti fuori, sugli altri, e chi sa se da qualche parte non giunga un ritorno, una scheggia di senso in più.

Quando avete individuato la vostra principale domanda del momento, come procedete?
Ci guardiamo e diciamo: “Allora, cosa si fa?”. Ci mettiamo al tavolo, uno da un lato, uno dal’altro e scriviamo cento pagine di trattamento. Una volta scritto lo chiudiamo nel cassetto. Dopo un mese o anche più, si riapre il cassetto. Il tempo decanta, così come l’oggettività della scrittura è rivelatrice.

Sono molti i trattamenti che restano nel cassetto?

Sì, ma magari dopo anni, in un altro film, qualcosa di quel trattamento messo al buio torna alla luce, trasformandosi. Il principio è che bisogna lavorare sempre.Quando poi si arriva alle cento pagine, torniamo al tavolo, sempre uno di qua, uno di là, e scriviamo la sceneggiatura. Ma – ci interessa precisare – noi non siamo scrittori che raccontano una storia, siamo registi che hanno delle immagini e le trascrivono sulla carta, contrassegnate già con il carrello, il primo piano, eccetera. Naturalmente quando andiamo a girare, il rapporto con gli attori che abbiamo scelto, il rapporto con quello che abbiamo già girato, con l’atmosfera della natura intorno, può suggerirci di rivedere decisioni  prese a tavolino, nel chiuso di uno studio.

Potreste tratteggiare lo svolgimento di una vostra giornata sul set?

Oggi dobbiamo girare 10 inquadrature. Ci svegliamo prima della troupe e almeno per un’ora le rivediamo una per una, perché come ti abbiamo accennato, la realtà può chiedere trasformazioni.
Andiamo sul set. Una regola è ferrea (i  fratelli Dardenne ci hanno confidato che anche loro fanno così): mettiamo che Vittorio diriga la prima inquadratura. Vittorio diventa il capo, solo a lui attori e tecnici possono rivolgersi. Paolo sta al video e controlla la ripresa. Qualcosa non va. Ormai tra noi c’è telepatia, basta un colpo di tosse, una grattatina in testa, un piede che batte nervoso, per intenderci. Si dà lo stop, segreto meeting tra noi due, si riprende. Consegnata l’inquadratura, la palla passa a Paolo, Vittorio va al video. La voce che dirige deve essere univoca, anche la minima sfumatura diversa può creare confusione se non addirittura sgomento, per esempio, in un attore.

E se poi le inquadrature sono undici?

Ce le giochiamo a dadi.

Perché è così importante per voi scrivere la sceneggiatura in prima persona e non delegare?
Esagerando: perché un film è anche una confessione personale. Ma, più concretamente, questo non esclude che altre creatività ci vengano in aiuto, sul piano artigianale o poetico: Tonino Guerra rappresenta uno degli incontri più emozionanti della nostra vita e con struggente tenerezza lo ricordiamo, ora che non c’è più.

Quindi non siete contrari alla figura dello sceneggiatore?

Vogliamo anzi dire che, in particolare il neorealismo e la commedia all’italiana, hanno avuto dei grandi sceneggiatori, veri cocreatori dei film che abbiamo più amato: scrittori meravigliosi – noi abbiamo avuto la fortuna di lavorare con Zavattini – che hanno dovuto soffrire dell’ambiguità della loro funzione. Il loro lavoro sulla carta si concretizza alludendo a un altro lavoro, quello delle immagini: una bella sceneggiatura la leggi, ti prende la sua struttura, ne ammiri la profondità dei personaggi, la delicatezza dei suoi particolari, l’icasticità dei dialoghi, ma tutto questo si anima solo di quel ritmo che un altro linguaggio può infonderle, trasformando il dato scritturale in immagini filmiche e portandolo così nella sfera dell’opera compiuta, alcune volte dell’arte.

I Taviani e la televisione. Con Resurrezione, del 2001, avete vinto anche il primo premio al Festival di Mosca.

Non sapevamo che la nostra produttrice lo avesse mandato a quel Festival. Avevamo da poco cenato, io e Carla, quando arriva una telefonata di Nikita Mikhalkov: “Ciao, Vittorio, come stai? Ascolta bene, domani tu e Paolo dovete essere a Mosca a ritirare il premio. Avete vinto il Festival”. “Grazie, grazie, Nikita! Ma domani non è possibile!”. “Con Mikhalkov tutto è possibile”. La sera dopo eravamo sul palco a ritirare il premio.
Resurrezione è stato realizzato in due puntate per la televisione e noi non facciamo distinzione tra film e film televisivi, salvo per quanto riguarda la durata: in televisione si può raccontare una storia usufruendo di un tempo più lungo. Come facevano Dumas, Dostoevskij, Balzac, che scrivevano le loro opere a puntate, sulle riviste. Era una esperienza che volevamo sperimentare e che molto ci incuriosiva. È stata una bella esperienza, anche perché girando Resurrezione ci siamo sentiti fiato a fiato con l’uomo, l’artista che più amiamo, Tolstoj. Con un vago senso di mistero, e di gratitudine, ci aggiravamo nella sua terra dagli infiniti spazi, nelle sue abitazioni intime come nelle imperiali case del potere.

Quindi la televisione non ha modificato il vostro modo di lavorare?

Se mai c’è stato un momento in cui il rapporto con l’audience ha avuto senso, per usare  parametri  televisivi, è stato quando abbiamo realizzato Padre padrone e quando poi è uscito nel mondo, incontrando un pubblico – ci hanno riferito – di un miliardo e mezzo di persone. Questa esperienza ha fatto risuonare qualcosa dentro di noi. Ci dicemmo che il rigore nei confronti della verità deve essere ancora maggiore, così come nel linguaggio era probabilmente necessario cercare una maggiore trasparenza tra quello che volevamo esprimere e quello che arrivava alla gente.

Nel 1977 avete vinto la Palma d’oro per il miglior film proprio con Padre padrone, un’opera che racconta l’implacabile cultura patriarcale sarda. Nel 1982, sempre a Cannes, avete conquistato il premio speciale della giuria con La notte di San Lorenzo e con lo stesso film, nel 1983, il David di Donatello per la miglior sceneggiatura. Nel 1986 è arrivato il Leone d’oro alla carriera. Sono seguiti molti altri riconoscimenti, ma in particolare, da ultimo, per Cesare deve morire avete ricevuto l’Orso d’oro a Berlino e il David di Donatello per il miglior regista. Questo film è indubbiamente una riflessione sociale e allo stesso tempo un saggio sul potere dell’arte. Cosa pensate del carcere, quanto è effettivamente un mezzo di rieducazione, quanto un semplice confino? Fino a che punto ha senso quel “fine pena mai” che abbiamo visto comparire più volte, non senza turbamento, durante il film?

È un abominio, un orrore, una barbarie il carcere per come è vissuto ora. È una bara per persone viventi: esclusione dagli affetti, castrazione del sesso, annullamento delle tue possibilità di uomo di realizzarti.
Ecco una immagine: quando le prime volte siamo entrati a Rebibbia, ci capitava di passare attraverso le varie sezioni. Attraverso le doppie porte semichiuse vedevamo esseri umani giovani, meno giovani, vecchi, sdraiati sui loro letti con gli occhi fermi, immobili, in un silenzio glaciale. Ecco, loro, su quei letti, consumano più della metà della loro vita. Nel nostro film risuona una frase che loro stessi ci hanno detto: “Non dovete chiamarci carcerati, ma guardatori  di soffitti”.

Con  Maraviglioso Boccaccio, uscito quest’anno, siete tornati nella vostra regione. Perché questa scelta?

Boccaccio è nato e vissuto a trenta chilometri da casa nostra a San Miniato. Lo consideriamo un concittadino e la fantasia delle novelle del Decameron ci ha sempre appartenuto. Occorreva però che intorno a noi, dentro di noi, accadesse qualcosa di coinvolgente per la nostra comunità per cui Boccaccio, oggi e solo oggi, ci apparisse come il terreno su cui costruire la nostra nuova, personale, opera.

In particolare cosa è accaduto?

Abbiamo concentrato  lo sguardo sulla peste del Decameron, da tutti sempre ignorata:  quell’epidemia che allora si presentava come un tragico dato naturale, oggi torna tra noi in altre forme. La peste sta in queste onde rosse del sangue dei disgraziati che muoiono in mare per fuggire dalla guerra, dall’olocausto. La peste sta nella ripugnante figura in nero  – icona medievale della morte – con la lama che luccica nelle sue mani per uccidere, sta nella crisi di quei giovani, il venti per cento si dice, che non solo non trova lavoro, ma neanche più lo cerca. Ci hanno evocato questa immagine: dei Cristi a braccia aperte sul mare a fare il morto. Ma quello non è il mare che rigenera, è una palude dentro la quale lentamente si affonda.

C’è una via d’uscita?

Dentro il nostro film sta un “no”, come quello che nel Decameron si ripetono i dieci giovani: “Non vogliamo sprofondare dentro la palude”. Hanno la forza di uscire dalla città appestata, di fuggire dalla autodistruzione e andare là dove la natura può venirgli incontro e la fantasia, l’energia del raccontare in comunità può rigenerarli. Le novelle che Boccaccio raccoglie e reinventa sono un  patrimonio popolare non solo italiano, dove si agitano le forze dell’umanità: nel bene e nel male, nell’amore e nell’odio, nell’allegria e nell’angoscia.

Vi siete confrontati con la lettura che Pasolini fa del Decameron nel suo film?
Come sempre  ci siamo mossi nella libertà più assoluta. D’altra parte, niente di nuovo sotto il sole: pensa a quanti Edipi e Medee e Elettre sono state immaginate, scritte, rappresentate. Sempre le stesse storie e sempre storie diverse. Come memoria personale, ricordiamo che quando Pasolini ci invitò alla sua proiezione, discutemmo insieme di quel che ci aveva lasciato perplessi e di quello che ci aveva convinto e che  avevamo ammirato: soprattutto la violenza della carnalità come atto liberatorio in una stagione dove i tabù erano molti. Lui stesso anni dopo ci disse : “Purtroppo la mia poetica ribellione sessuale è andata a confondersi con l’oscenità che, giorno dopo giorno, sempre più  imperversa in questo nostro mondo di consumo”.

È un film che rivolgete ai giovani anche per aiutarli a conoscere Boccaccio?

Non ti mettono in imbarazzo i fini didattici di un’opera? A un critico probabilmente no; a noi due sì. Quando  ci affidiamo a Boccaccio, a Tolstoj, a Goethe, a Pirandello, diciamo a questi meravigliosi fratelli maggiori, e  nostri improvvisati  sceneggiatori: “Grazie per quello che ci date, ma ora con quello che vi abbiamo preso andiamo per la nostra strada e faremo violenza a voi per raccontare di noi”. Comunque è vero, il nostro film è anche un atto di amore per Giovanni, nostro concittadino, così come lo è nei confronti della nostra terra, dove siamo nati e nella quale ci riconosciamo. Mentre ci si muoveva con la nostra macchina da presa tra questi colli, dalle linee così semplici e pur misteriose, tra queste contrade dalle mille memorie, ancora una volta ci veniva da pensare: è forse vero che qui, in questa terra, natura e storia hanno raggiunto quell’armonia, che l’uomo persegue, ma che mai raggiunge.Vedi? Ci stai portando a filosofeggiare. E allora sarà bene chiudere qui. Grazie, amico, e buona giornata.

Da dazebao


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