Le strade e le piazze di Teheran invase di giovani che inneggiano alla vita, alla libertà e alle prospettive ritrovate; le strade e le piazze di Atene, in particolare l’ormai celebre piazza Syntagma, invase dalla rabbia e dalla disperazione di un popolo allo stremo: in questo stridente contrasto di sentimenti popolari è racchiusa la differenza fra la saggezza di un’amministrazione pragmatica ma progressista, quella di Obama, e la stupida miopia di una classe dirigente, quella europea, non solo inadeguata ma indegna della propria storia e delle proprie tradizioni politiche e culturali.
Un paese che si apre al mondo, guarda al futuro e decide di fare fronte comune anche con avversari, talvolta veri e propri nemici, storici: questa è l’America che Obama aveva promesso in campagna elettorale, ribadendo il concetto il giorno del primo giuramento e consacrandolo a livello internazionale nel famoso discorso del giugno 2009 all’università del Cairo: il discorso che gli è valso il Nobel per la Pace e che oggi è giunto a compimento, trovando la sua attuazione concreta nell’accordo di Vienna sul nucleare iraniano.
Un continente fragile e isolato, prigioniero di dogmi economici ormai insostenibili e strafalliti e di un modello sociale e di sviluppo che sta minando l’idea stessa di democrazia: questa è, invece, l’Europa delle Merkel e degli Schäuble, dei Cameron e dei Rajoy, degli Orbán e di una socialdemocrazia inesistente, sfibrata, subalterna al pensiero unico dominante, al punto da aver indotto persino alcuni dei suoi storici esponenti a disconoscerla e metterla in stato d’accusa.
Il contrasto è aspro e brucia sulla nostra pelle, perché da una parte si respira la forza e la pienezza della politica come arte nobile che, unita a una diplomazia all’altezza della situazione, è in grado di cambiare il corso della storia e degli eventi, di abbattere muri, riaprire frontiere e ambasciate, tendere mani insperate e stringere accordi nell’interesse della comunità che solo una leadership colta, salda e sicura di sé senza scadere nell’arroganza poteva portare a termine. Sul versante europeo, al contrario, si respira sempre di più un’aria di resa, un senso di impotenza, anzi di inesistenza, della politica, schiacciata dagli interessi di lobby voraci e in lotta fra loro per contendersi i residui scampoli di potere, annientata da interessi sovranazionali dominanti e completamente distaccati dalla volontà e dalle ragioni dei popoli, incapace di fornire risposte adeguate a chi ha patito maggiormente le conseguenze della crisi, in preda a spinte e pulsioni populiste pericolose e, apparentemente, inarrestabili, per il semplice motivo che si alimentano, di giorno in giorno, di un malessere generale crescente e comprensibile.
La Grecia, tanto per citare l’esempio più eclatante, doveva morire ed è stata piegata, sottoposta a umiliazioni e vessazioni d’ogni sorta, privata, di fatto, della propria sovranità nazionale, trasformata in un protettorato tedesco, sfiancata dopo mesi di trattative devastanti e costretta ad accettare accordi dannosi e socialmente insopportabili, assai più duri di quelli prospettati alla vigilia del referendum cui pure i greci avevano risposto massicciamente, esprimendosi con chiarezza contro questo cappio asfissiante che sta facendo precipitare il Paese in una spirale di distruzione e arretratezza senza ritorno.
Doveva morire Tsipras e, ancor più, l’ex ministro Varoufakis, la cui unica colpa è quella di aver denunciato cause, conseguenze e le reali intenzioni dei creditori e dei responsabili delle misure di austerità che hanno sprofondato il popolo greco in un incubo senza fine.
Dovevano morire affinché nessun altro popolo europeo, a cominciare dagli spagnoli in autunno, osasse alzare la testa, ribellarsi e provare a recuperare lo spirito e le ragioni costitutive del sogno europeo.
Dovevano morire e sono stati uccisi, anzi costretti al suicidio, a votare in Parlamento per accordi capestro che hanno spaccato Syriza e rischiano ora di fare tornare al governo le stesse forze politiche che hanno mentito, truffato, ingannato, rubato e, infine, accettato senza opporre alcuna resistenza condizioni per le quali oggi la Grecia somiglia plasticamente a un paese del Terzo mondo.
Di fronte a tanto dolore e a tanta sofferenza, c’è persino chi esulta: quei socialdemocratici fasulli e venduti che hanno preferito la poltrona alla dignità e i loro esponenti ai vertici di istituzioni importanti, mezze figure del tutto inadeguate a far fronte alla crisi in atto, prigioniere della propria scarsa dimestichezza con i processi mondiali e con una visione ampia e dotata di pensieri di lungo respiro circa l’avvenire dell’umanità.
Teheran, invece, secondo il rooseveltiano Obama, doveva vivere e tornare a crescere, a sperare, a sognare, a immaginare un domani diverso e migliore, un orizzonte di pace e libertà, a far esprimere le proprie intelligenze più fresche e progressiste, spazzando progressivamente via ogni forma di oscurantismo e di miseria morale del passato.
E al pari dell’Iran, secondo Obama, deve tornare a vivere e a sperare anche la Siria, proprio come il martoriato Medio Oriente, le primavere arabe naufragate e il Mediterraneo in fiamme, a dimostrazione che siamo di fronte ad un uomo che ha scelto di dedicare la parte conclusiva della sua permanenza al potere alla costruzione di un’eredità che sarà difficile per chiunque smantellare.
Perché Obama, a differenza di Schäuble, il dolore degli ultimi lo ha conosciuto veramente e se ne è fatto carico per anni; perché Obama ha anteposto le future generazioni alle proprie ambizioni personali; perché Obama è un uomo politico munito di una raffinatezza culturale e di un’apertura mentale di cui nessuna delle controfigure europee, purtroppo, dispone. E poi perché l’America esiste e l’Europa no, vittima com’è di una serie di integralisti che hanno scelto di privilegiare la mera gestione dell’esistente e i propri simulacri di potere piuttosto che ambire a realizzare quella grande casa comune dei diritti e delle opportunità collettive che sola sarebbe in grado di resistere in un contesto globale.
Le piazze di Teheran, la furia cieca del premier israeliano Netanyahu e il catino ribollente di Atene: basta mettere a confronto queste tre fotografie per avere nitida l’immagine di un leader capace di coinvolgere una moltitudine in un processo di fratellanza universale (in questo coadiuvato dalle indubbie qualità politiche del duo iraniano Rouhani-Zarif), di un miserabile il cui estremismo è inversamente proporzionale all’intelligenza e alla lucidità d’analisi e d’azione e di un continente in declino, intrappolato nelle proprie contraddizioni, nelle proprie ambiguità e nel proprio vivere sospeso fra un passato che non può tornare, un presente che non si riesce a interpretare adeguatamente e un futuro che non si vuole costruire, condannando intere generazioni alla rassegnazione e allo sconforto, in un mondo in cui i nostri coetanei hanno finalmente deciso di tornare ad essere protagonisti.